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Paolo De Benedetti. Un teologo con il dono del dubbio

Paolo De Benedetti. Un teologo con il dono del dubbio

[di Daniele Rocchetti, delegato regionale alla vita cristiana] 

Nelle scorse settimane abbiamo fatto memoria del settimo anniversario della morte di Paolo De Benedetti, un teologo di vaglia, protagonista e personaggio unico del dialogo ebraico-cristiano. Per motivi personali e non solo di studio. Il padre era ebreo e permise che il figlio Paolo potesse essere battezzato a condizione che l’educazione religiosa gliela impartisse la mamma che era cattolica. Colto, coltissimo, De Benedetti ha passato l’intera vita a cercare di costruire ponti tra mondi e culture ed uno dei pochi teologi del nostro tempo che ha elaborato una teologia degli animali. Come ben ha scritto di lui Gabriella Caramore ““per elaborare una “teologia” che non abbia più al proprio centro soltanto l’uomo, ma, assieme a lui, l’animale, e ogni essere vivente, ci voleva un teologo come Paolo De Benedetti. Il cui pensiero si articola non intorno ad assiomi, evidenze, certezze. Ma intorno al “forse”. Al dubbio. Alla logica dei “doppi pensieri”. Solo chi, come lui, ha un senso così forte della precarietà dei giudizi umani e della imperscrutabilità di quelli divini, può arrivare a elaborare una teologia che metta continuamente in discussione se stessa: fino a spostare il centro della propria attenzione dalla creatura umana, che lo ha da sempre altezzosamente occupato, alle creature “minori”, che sempre sono state ai margini.” 

Mi è capitato più volte di invitarlo e di dialogare con lui. Questa è la trascrizione di una nostra chiacchierata.

A dispetto del cognome ebraico, Paolo De Benedetti è un teologo cattolico. Però è sicuramente anche grazie a lui che la religione ebraica è oggi più conosciuta e studiata da molti cristiani. Docente di Giudaismo alla Facoltà Teologica Settentrionale, di Antico Testamento a Urbino e a Trento, il professor Paolo De Benedetti unisce rigore e competenza ad un modo narrativo così leggero e così ebraico che rende ogni sua lezione o conferenza qualcosa di affascinante e di coinvolgente.

Ecumenismo e dialogo interreligioso sono parole che paiono essere entrate, finalmente, nel vocabolario del credente…

Questo è molto bello e importante, a patto che ci sia la necessaria chiarezza. Personalmente, ho fatto inserire nei documenti del Sinodo milanese tre tipi di dialogo, da non confondere o sovrapporre l’uno con l’altro: l’ecumenismo intracristiano, che ha come scopo la futura unità delle chiese ed è l’ecumenismo in senso proprio; il rapporto con Israele che non mira alla conversione di Israele ma è piuttosto un dialogo delle chiese con se stesse al cospetto di Israele; infine le relazioni con le altre religioni in cui si cerca un terreno di intesa sui diritti umani, su tante cose che non sono propriamente religiose.

Coloro che contestano la linea del dialogo dicono che questo mette a rischio l’identità

Credo che quanti affermano questo hanno una grande sfiducia nella propria identità: hanno una identità debolissima che pretende di reggersi sull’assenza dell’altro.

Siamo in una stagione particolare. Da una parte si sente sempre più l’esigenza che le diverse tradizioni religiose comincino a dialogare più da vicino, dall’altra pare invece che questo sia sempre più difficile. Come mai?

Le cause sono diverse. Una,  forse banale ma secondo me importante, è che tutte le grandi iniziative dopo un po’ si afflosciano: un po’ come il popolo ebraico che dopo l’Esodo si normalizza. Un’altra ragione è che effettivamente c’è stato in alcune chiese – compresa quella cattolica – un riflusso di tipo, diciamolo in maniera simbolica, “non conciliare”. Infine, ho l’impressione che, molto spesso, il dialogo ecumenico è stato più un fatto di vertice e di gesti simbolici che di popolo e di comunità. Proprio in questi giorni ho letto un documento diocesano che chiede che siano le singole chiese a prendere le iniziative ecumeniche. Che a muoversi non siano solo i vertici e che le chiese abbiano una maggiore libertà di movimento e di invenzione.

È ben strano però che il dialogo appaia più una necessità di vertice che non della base…

Credo che in realtà ci sia dialogo di base che non viene abbastanza pubblicizzato. Per esempio, certamente se il Papa abbraccia un patriarca la notizia assume rilievo mentre se cattolici e riformati si riuniscono a studiare insieme la Bibbia la cosa appare scontata. È un motivo da tenere presente. Inoltre, i grandi gesti rientrano nel disegno di pubblicità della nostra società: non costano molto cari. Tenga conto che l’abbraccio con il patriarca non comporta di per sé che ognuna delle due parti senta il bisogno di cambiare. Sono gesti che di per sé non significano conversione, significano solo arrivo delle buone maniere.

Anche il dialogo ebraico cristiano pare attraversare un momento di stanca. Quali sono le ragioni?

Personalmente, sono molto contrario che si usi l’espressione dialogo ebraico-cristiano o dialogo cristiano-ebraico perché è un termine improprio. Lo scopo, infatti, è la conversione delle chiese. Non è – se non indirettamente – quello di avere buoni rapporti con gli ebrei o spiegare meglio l’ebraismo o abbandonare le posizioni ingiuriose nei loro riguardi. Sono tutte cose essenziali ma, come ha ripetuto spesso il cardinal Martini, lo scopo primo del dialogo con l’ebraismo è che cambi la Chiesa, la comprensione che la Chiesa ha di sé, dell’ecclesiologia, della cristologia. Il rapporto sembra bilaterale ma non lo è. Siamo noi ad aver bisogno dell’ebraismo più di quanto loro abbiano bisogno di noi.

Questo perché non si dà fede cristiana se non in una piena comprensione della fede ebraica

Su questo tema negli ultimi decenni si è scritto moltissimo. Il cristianesimo nasce come una forma di ebraismo e ha alle sue spalle la stessa cosa dell’ebraismo, cioè la Bibbia. La Bibbia di Gesù, di Paolo è quella che noi chiamiamo Antico Testamento. Gesù ragiona con concetti, mentalità, genere letterari, tipicamente ebraici. Il problema è nato quando la Chiesa – lo dice molto bene Rossi De Gasparis – è diventata a schiacciante maggioranza pagana e allora ha voluto raggiungere la promessa senza passare più attraverso la mediazione ebraica.

Questo ha generato non pochi corti circuiti…

Giovanni Paolo II ha detto una cosa molta giusta: l’ebraismo e il cristianesimo sono legati al livello della loro stessa identità. Lo dico con altre parole:  non sono due religioni, sono due forme dell’alleanza. Dire questo significa dire che non si può più sostenere (e praticare) la teologia della sostituzione. Ancora oggi nella liturgia e in tante prediche noi sentiamo dire che la Chiesa è il “nuovo popolo di Dio”. La Chiesa non è il nuovo popolo di Dio. C’è un solo popolo di Dio, che è Israele, che è sempre popolo di Dio (questo lo dicono anche i documenti vaticani) e quindi le promesse di Dio ad Israele (Paolo nella lettera ai Romani) valgono sempre.

Dove sta allora la specificità della fede cristiana ?

La rivelazione cristiana è una persona: Gesù, il Cristo. Non è un caso che i Vangeli siano quattro e non uno solo (come una volta quando si faceva il vangelo “unificato”).  Ossia che questo uno – secondo il modo ebraico – viene interpretato in varie maniere. Non c’è mai una sola interpretazione di un testo biblico e così su questa parola fatta carne ci sono almeno cinque interpretazione: i quattro vangeli e Paolo. Non è neanche giusto dire che il cristianesimo perfeziona l’ebraismo. Il superamento cristiano dell’ebraismo ha un senso geografico non storico, rende universale il messaggio.

Eppure la rivelazione da questo punto di vista introduce una rottura

Certamente introduce una distinzione tra quelli che vedono in Gesù la Parola e quelli che la non vedono. Gli uni sono i cristiani, gli altri gli ebrei. Questa distinzione è difficile trattarla in maniera non polemica. Per questo si è spesso parlato della “durezza di cuore” degli ebrei e del loro rifiuto. Ma storicamente non è avvenuto così: al tempo di Gesù milioni di ebrei non s’erano neanche accorti della sua esistenza. Quando la predicazione verso gli ebrei è cominciata è stata coatta e ingiuriosa e questo non aiutava certo la mutua comprensione. E’ stata anche una rottura culturale, linguistica e geografica perché dopo la distruzione di Gerusalemme i nuclei ebraici che hanno resistito erano quelli in Babilonia dove non c’era, quasi per niente, il cristianesimo. Il cristianesimo è andato verso Occidente, l’ebraismo verso Oriente e si sono consolidati come due entità separate.

Lei conosce da vicino il mondo ebraico. Quali ricchezze potrebbe portare all’esperienza cristiana?

Il primo dato, in parte già molto recepito, è un grande arricchimento nella lettura della Scrittura, soprattutto valorizzando il pluralismo delle interpretazioni. In secondo luogo, l’ebraismo insegna a valorizzare la situazione terrestre, a vivere cioè la vita di quaggiù non come un passaggio ma come il vero luogo dove Dio ci ha messi e a riconoscerlo come un dono di Dio. Nel giorno del giudizio, dice un racconto talmudico, ad ogni uomo verrà chiesto conto dei piaceri che gli sono stati offerti ma che non ha goduto. Un’altra idea fondamentale che l’ebraismo ha sempre avuto è che la salvezza delle genti non richiede conversione ad un’altra religione. Non crede cioè che i pagani per salvarsi debbano diventare ebrei: secondo le cosiddette “leggi di Noè” non devono essere idolatri. E poi la fedeltà: la fedeltà di Israele al suo Dio, nonostante tutto quello che è successo, è un fatto straordinario.

Il 27 gennaio prossimo celebreremo in Italia di nuovo la “giornata della memoria”. In che modo la shoà è stata davvero un unicum nella storia umana?

Perché essa non era spinta da logiche di conquista o da ragioni di guerra. La condizione per essere uccisi era semplicemente quella di nascere. Questo secondo me, in modo programmatico, non è mai avvenuto. Pensi alla fatica che i nazisti hanno fatto nell’andare a scovare ebrei dappertutto. Probabilmente ciò ha abbreviato la guerra, perché questa ricerca li distoglieva dagli scopi bellici. Anche quando oramai erano certi della sconfitta militare hanno voluto, sino alla fine, deportare gli ebrei nei campi di sterminio.

Perché non bisogna dimenticare?

Oltre al fondamentale dovere civile, perché la conversione delle chiese è stata provocata in massima parte non da un ripensamento teologico ma dalla Shoà. È da fuori, non da dentro, che è venuto il nuovo atteggiamento delle chiese. Se pensiamo a tutta la storia cristiana e al profondo antigiudaismo di cui essa è stata pervasa… A partire dai Padri della Chiesa: Giovanni Crisostomo scrive che gli ebrei hanno recalcitrato come un animale ribelle e gli animali ribelli al giogo sono degni del macello e così gli ebrei. Certo, erano dei retori però a forza di retorica….

Dov’era Dio ad Auschwitz? È una domanda che è risuonata molte volte nei campi di sterminio…

Ho più volte ripetuto che una delle colpe di Hitler è stata quella di costringere gli ebrei a interrogarsi su Dio perché questo è estraneo all’ebraismo. L’altro giorno ho ricevuto un fax da un anziano signore ebreo che vive a Gerusalemme. Si chiama Jaques Stroumsa e qualche anno fa, presso la Morcelliana, gli ho pubblicato un libro che si intitola Violinista ad Auschwitz. Stroumsa si è salvato ad Auschwitz appunto perché suonava il violino nell’orchestra che i nazisti, perfidamente, in alcune occasioni, facevano suonare al campo. L’anno scorso è venuto a Brescia a presentare il  libro: c’era moltissima gente. Ad un certo punto, ha preso quel violino e ci ha suonato un pezzo di quello che suonava ad Auschwitz. È stata un’esperienza insieme meravigliosa e terribile. Adesso mi ha mandato un fax dicendomi: “Sono tormentato. Come si fa a credere in Dio dopo tutto quello che è successo?” e mi prega di dialogare con lui su questo tema. (Un lungo silenzio) Dio pretende molto da noi, moltissimo. Moltissimo.

Che dirà a quel violinista?

Eh…eh… non so, adesso gli ho scritto una lettera in cui gli riconfermo il mio tormento… (Un lungo silenzio). Gli ho ricordato una frase ebraica: “Insegna alla tua lingua a dire non so”.

Può essere sufficiente?

No, no. Per questo io ho scritto tante volte che la vita futura è un’esigenza di Dio, non nostra. I patriarchi, per esempio, morivano beati e contenti senza avere la più pallida idea della vita futura a quell’epoca. È un’esigenza di Dio nel senso che è la possibilità che lui avrà di spiegarsi. Perché quaggiù non ci spiega proprio niente.

I nazisti hanno voluto cancellare a tutti i costi la memoria. Cosa è la memoria nel mondo ebraico?

È come la famiglia. È il mio essere. È il mio collegamento con la storia, con gli altri, con Dio. Senza memoria io non sono.  Ed è sempre memoria raccontata. Che racconta anche il futuro. Ma non in termini di visioni: racconta il futuro nel senso che io so (anche se non so come) che si arriverà al futuro di Dio. Pensi che ci sono dei rabbini che dicono: “Può darsi che quando voi cristiani avrete la seconda venuta, quello che verrà sarà anche il nostro Messia”.

 

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