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Un libro di Gigi Riva. Per ricordare il Covid e i suoi morti

Un libro di Gigi Riva. Per ricordare il Covid e i suoi morti

[di Daniele Rocchetti, delegato regionale alla vita cristiana]

Il tempo del Covid l’avevo lasciato alle mie spalle. Non che non riandassi con la memoria a quei mesi terribili; al suono, in alcuni giorni ininterrotto delle sirene delle autoambulanze; al tocco da morto delle campane del mio paese; alle telefonate quotidiane ai figli e agli amici e, in particolare, ad una mia zia anziana, sola in casa. All’ansia per la salute di chi avevo a cuore, allo sconcerto nell’ascoltare la notizia di persone care morte così velocemente da non poterle neanche salutare, rinchiuse in un sacco e sepolte in fretta

Non avevo certo potuto dimenticare quelle lunghe settimane passate in casa, le tante sere improvvisamente vuote da impegni riempite da serie televisive e dai primi impacciati passi su Zoom, la piattaforma usata per imbastire un po’ di resistenza e di consolazione dentro il mondo delle Acli. Se pure avessi voluto farlo, me l’avrebbero ricordato – nei mesi a seguire – i tanti che, un po’ da tutta Italia e anche da fuori, quando li sentivo, richiamavano la foto, scattata da uno steward di Ryanair da un balcone di Borgo Palazzo, dei camion con le bare, icona terribile di un tempo sospeso con il quale, andavo a scoprire, mi era difficile fare i conti. Non era solo il desiderio di ricominciare, era soprattutto la fatica di fare i conti con un buco nero che mescolava insieme malapolitica e dolore, retorica e mancanza di parole giuste di fronte a chi era sopravvissuto, soprattutto a chi aveva perso affetti.

“Non avevo certo potuto dimenticare quelle lunghe settimane passate in casa”

Il libro di Gigi Riva (Il più crudele dei mesi. Storia di 188 vite, Mondadori 2022) l’avevo visto ma non avevo voluto comperarlo. Una scelta strana per me che conosco e apprezzo l’autore, giornalista di razza e inviato di guerra, di cui credo di averlo letto tutti i libri. Volevo, di nuovo, segnare una distanza da quel tempo. Poi succede che poche settimane fa un amico passa a trovarmi e mi racconta che Gigi Riva una sera d’estate è stato nel suo piccolo paese in Val Brembana a presentarlo. Il mio amico ne compera una copia per regalarmelo. Così, mio malgrado, comincio a leggerlo. E lo trovo bellissimo.

Nembro. 164 morti in un mese. Nomi e storie

E’ la storia di Nembro, il paese più colpito dal Covid. “Sulla lapide a ricordo dei caduti davanti al cimitero ci sono 126 nomi per la Prima guerra mondiale, 98 per la Seconda. Di Covid-19, tra la fine di febbraio e aprile 2020, sono morte 188 persone, 164 a marzo, il più crudele dei mesi, su una popolazione di 11.500 abitanti”. A queste persone Riva dà nome, volto e storia: Alfredo Criserà, sessantasei anni, detto “Jair”per carnagione scura come il campione dell’Inter di Herrera; Mauro Lazzaroni, fondatore, insieme ad altri, del Motoclub Carater, uomo di successo, elegante come un dandy di provincia; Giulio Bonomi, falegname autodidatta, mai sazio di conoscenza, appassionato di operai e di giustizia sociale; Silvio Adobati, gregario di Fausto Coppi e poi gestore della balera Dancing Europa, che portò i Camaleonti e lo spirito degli anni Sessanta in val Seriana; Cristina Marcassoli, impiegata all’anagrafe da quarantadue anni, sempre disponibile e attenta con tutti, pronta alla festa della prossima pensione.

E ancora: Sandro Barcella, signore incontrastato del Modernissimo, dal carattere burbero e collerico ma mago alla consolle del teatro; Elsa Barcella, a cui il figlio Rudi – che dopo la morte posta su Facebook una lettera bellissima e dolorosa – scatta un’ultima, tenerissima, fotografia con la sua mano che accarezza la mano della mamma dove si vedono le unghie colorate di rosso e tre anelli d’oro; Tullio Carrara, colto e appassionato bibliotecario del paese, laureato in lettere classiche che teneva lezioni gratuite di latino e corsi sulla Divina Commedia e il Vangelo, oltre che allenatore ai ragazzi della David in oratorio; Marino Novelli, vigile volontario del paese: piovesse, nevicasse, o tirasse vento, ogni mattina si metteva il giubbino d’ordinanza e raggiungeva le strisce pedonale per regolare il traffico e far attraversare la strada ai bambini; Ivana Valoti, l’ostetrica che fece nascere molto figli e poco prima di morire riuscì a mostrarsi, nel suo reparto di ostetricia e di ginecologia dove aveva voluto farsi ricoverare, al proprio mentre beveva il te, avendo aperto il casco dove veniva erogato l’ossigeno a pressioni molto alte; l’Angelì e la Rina, genitori di Delia, il Beretì, quello della ferramenta, il “Roccia”, alpino dal cuore grande, operaio di giorni, muratore la sera.

Alfredo Criserà detto “Jair” ; Mauro Lazzaroni, elegante come un dandy di provincia; Giulio Bonomi, falegname autodidatta; Silvio Adobati, gregario di Fausto Coppi; Cristina Marcassoli, impiegata all’anagrafe…

In quei giorni che portavano Nembro al centro della ribalta mondiale “i vivi sopravvivevano camminando, metaforicamente, sui cadaveri. E sul ricordo di quando i morti erano vivi, poco fa. Non c’era angolo, anfratto, portone, condominio, via, che non avesse il suo estinto. Il numero aumentava come quello di un contatore impazzito senza più generare sorpresa.” (pag.131).

Sette Pezzotta, nove Cortinovis, sei Bergamelli, sei Carrara, sei Barcella e moltissimi altri: un martirologio che ha la forza di restituire nelle pieghe delle vite spezzate per sempre il senso di una comunità, la cura dei legami. Che parla di vita, nonostante tutto. Del coraggio dei tanti che con tenacia non sono venuti meno al loro dovere di uomini e hanno esercitato, nello scorrere dei giorni del più crudele dei mesi, la responsabilità per il bene comune, più grande del piccolo perimetro di ciascuno.

Il covid, allora, oggi una spaventevole grandinata

Dal sindaco al curato, dagli infermieri ai medici di famiglia. Sono loro che seppure non siano riusciti a salvare le donne e gli uomini aggrediti dal virus hanno custodito l’idea di vita buona anche dentro la notte più buia. Gigi Riva non si ferma solo a questo. Mentre scorrono le storie, racconta dell’approssimazione dei primi momenti (“Nella consapevolezza di pochi e nell’ignoranza generale ad Alzano era divampato un focolaio. Si era cercato di tamponarlo con spruzzate di Vetril, una passata di straccio sui pavimenti e una larva di sanificazione” p.26), l’incapacità della politica ad ascoltare le voci dei medici, decidere la chiusura dell’ospedale e, nella prima fase dell’emergenza a stabilire la “zona rossa” ad Alzano e Nembro, lo stato di malessere del Servizio Sanitario Nazionale continuamente sottoposto, dai governi di destra come quelli di sinistra, a tagli e che negli ultimi anni ha visto progressivamente espandersi – sostenuto dal sostegno convinto di politici di primo piano – un servizio sanitario privato “parallelo” che sottrae denaro pubblico per alimentare anche profitti privati, senza alcuna connotazione di reale integrazione rispetto a quanto già offerto dai livelli essenziali di assistenza (da leggere per intero la lettera del dottor Roberto Micheli a pag.146-151).

Ne usciremo migliori”, stava scritto su un grande lenzuolo esposto in un condominio. Non lo so se è avvenuto

Una lettura che merita di essere fatta. “Ne usciremo migliori”, stava scritto su un grande lenzuolo esposto in un condominio. Non lo so se è avvenuto, anzi a volte mi pare proprio di no. Eppure proprio da Nembro viene un monito e un impegno. “Il bisesto 2020 aveva però ancora in serbo una prova da far superare ai nembresi, un colpo di coda, un sovraccarico di crudeltà tanto più difficile da sopportare perché inaspettato. Il 2 giugno, festa della Repubblica, si scatenarono gli elementi, una grandinata che sembrava una nevicata epocale fuori stagione. Le strade che dai pendii portano al corso principale scaricarono tonnellate di ghiaccio che si ammucchiò contro le pareti delle case. La ferramenta del compianto Beretì ne fu coperta fin quasi all’insegna. I volontari della pandemia si trasformarono in volontari del maltempo. Si armarono di picconi e pale, ci vollero le escavatrici. Si accesero i fari per completare l’opera di sgombero durante la notte. A lavoro finito, spuntò l’alba.” (p.190)

 

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