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La vita è più forte e la morte non è l’ultima parola. La testimonianza di suor Alicia, “donna coraggio”

La vita è più forte e la morte non è l’ultima parola. La testimonianza di suor Alicia, “donna coraggio”

[Daniele Rocchetti, delegato regionale alla vita cristiana]

Cosa è il coraggio? Mi sembra che sia semplicemente l’amore in movimento, l’amore in azione. Che non si ferma di fronte agli ostacoli, alle sfide, alla paura. Penso che lo specifico delle religiose in questo contesto mediorientale ma credo in tutti i contesti sia la creatività dell’amore, ovvero l’essere capaci di mettere l’amore in movimento, con tanta creatività, con espressioni anche ministeriali e di servizio diverse. Penso che in questo forse noi religiose siamo un po’specialiste ed è bello che ciò venga riconosciuto e messo in luce.” A dirmi questo è suor Alicia Vacas, comboniana, di origine spagnola, insignita lo scorso otto marzo, con altre quattordici donne, del premio “Donna coraggio”, assegnato da Antony Blinken, Segretario di Stato americano. Con lei donne della Birmania e del Camerun, della Bielorussia e del Congo, del Nepal e dell’Iran e di altri Paesi del mondo. Donne che hanno dimostrato eccezionale coraggio e leadership nel sostenere la pace, la giustizia, i diritti umani, l’uguaglianza di genere e l’emancipazione femminile, spesso a grande rischio personale e sacrificio.

Una casa accerchiata dal Muro

“Sognavo di andare in Africa ma la vita mi ha portato in Medioriente: prima a Dubai, poi in Egitto, Israele e Palestina”. Ora suor Alicia, 48 anni, un diploma di infermiera alle spalle, è superiora provinciale delle Suore Missionarie Comboniane per il Medio Oriente. Ci conosciamo da molti anni e l’ho incontrata varie volte a Betania, il villaggio di Marta e di Maria e della resurrezione di Lazzaro (non a caso, ancora oggi, gli arabi lo chiamano al-Azariyeh, luogo di Lazzaro) dove le Comboniane hanno la loro casa. Che ha una particolarità. Dopo la costruzione del Muro di Separazione che separa Israele dai territori palestinesi, la casa è stata accerchiata da tre lati. “Si, accanto alla casa, nel nostro giardino, è sorto il muro, alto otto metri e profondo quattro. Un muro che ci ha diviso dalla piccola comunità cristiana che si ritrova attorno alla chiesa e ci ha separati dalle famiglie dei bambini che frequentano la nostra Scuola materna. La casa e la comunità, fino al 1967 territorio giordano, sono finite nella parte israeliana, loro nella parte palestinese. In linea d’aria sono meno di duecento metri. In pratica, se volessimo recarci a trovare le famiglie dobbiamo percorrere con l’automobile diciotto chilometri. Un tragitto non facile, costellato da checkpoint e che può durare ore”. 

Un giardino dove i soldati rincorrono i giovani 

Quando passo a trovarla, suor Alicia mi accompagna sul grande terrazzo della casa e mi mostra, appena al di là del muro, un appartamento dove ora vive una parte della comunità comboniana che si è trasferita lì per continuare ad essere vicina e condividere la vita con la gente di Betania. Le suore si salutano e si mandano parole e messaggi dai balconi. “Il muro ha sconvolto la nostra vita. I ragazzi hanno imparato a scavalcarlo per andare a Gerusalemme, a lavorare o in moschea. A noi suore capita spesso di vedere nel giardino soldati che inseguono i giovani. A volte, vi sono scontri con le pietre, altre con i gas lacrimogeni o le molotov che hanno bruciato il campo sintetico del nostro asilo. E’ la storia di questo pezzettino di muro, ma il muro è lungo più di 800 chilometri e ogni pezzettino ha la sua storia”

Si vive in una bolla, senza l’altro

La ragione primaria per la quale venne costruito il muro era quella di bloccare gli attentatori suicidi che terrorizzavano con i loro attacchi la popolazione civile di Gerusalemme. Suor Alicia concorda che da allora si sono ridotti drasticamente i kamikaze ma sono sorti altri problemi. “C’è una generazione di ragazzi che è cresciuta e che non ha visto e incontrato nessuno dall’altro lato del muro. Ciascuno resta nella sua bolla e il risentimento, l’odio, è molto più immaginativo ed è pericoloso perché dà l’occasione di gettare addosso all’altro tutta la paura e la rabbia. Il muro rischia di portare una pace finta ma non sta offrendo una prospettiva di pace per il futuro”.

Come stare da cristiani nel conflitto?

Quando vedo quel muro in mezzo al giardino di Betania mi pongo ogni volta la domanda su come si possa stare da cristiani nel conflitto israelo-palestinese. “Intercessione – mi dice convinta suor Alicia – vuol dire stare in mezzo. E’ una posizione scomoda, che a volte ti strazia. Eppure è quello che ci è chiesto per stare da cristiani dentro questo conflitto. Non possiamo farci prendere dalla rabbia o dalla disperazione. Come comboniane faremmo un pessimo servizio alla Terra Santa se impugnassimo una bandiera contro un’altra. Non perché non vediamo ciò che ci appare ingiusto o non sappiamo che posizione prendere ma il nostro compito è quello di lavorare per riconciliare. Vogliamo creare momenti e possibilità per sconfiggere questo muro, per aprire brecce. Per questo abbiamo sempre voluto lavorare con il popolo palestinese ma anche con organizzazioni e amici e volontari israeliani. E’ fondamentale che si creino occasioni perché in questo modo si incontra il volto dell’uomo. Il governo fa di tutto perché questo non avvenga. Ma da una parte e dall’altra sono in tanti a volerlo.”

Ebrei che vogliono la pace

Dunque, da una parte un governo che costruisce il muro, dall’altra una miriade di organizzazioni ebree che si impegnano a servizio di chi fa più fatica: Rabbini per la pace, Donne in nero, Medici per i diritti umani, Machsom Watch, Combattenti per la pace, Parent’s Circle. “All’inizio pensavo di essere fortunata quando ne incrociavo qualcuno. Poi invece ne ho incontrati tantissimi: artisti, maestri, intellettuali, infermieri, medici. A volte, alcuni di loro si giocano lo status o le relazioni sociali con gli amici e l’ambiente attorno. Eppure non mollano.”

Stare in piedi davanti alla croce. Che non è l’ultima parola.

Dentro i drammi che incontri ogni giorno, dai beduini ai rifugiati del Sinai che arrivano in Israele portando sul corpo i segni della tortura, come custodire la speranza e fare in modo che non resti solo una parola retorica? “Mi sento molto fortunata perché la nostra fede ci fa stare in piedi davanti alla Croce. E’ una forza sconvolgente. La capacità cioè di stare in piedi davanti alle ingiustizie, alla sofferenza, alla morte perché c’è la convinzione molto profonda che la vita è più forte. Ed è davvero più forte. Nel 2014 quando c’è stata la guerra a Gaza ci siamo recati con i Medici per i diritti umani. Mentre stavano bombardando, tante persone, anche israeliane, ci chiedevano: dov’è Dio a Gaza? Io ho scoperto che era nelle rovine, anche nelle mie rovine, nelle mie debolezze. Certo, la domanda “Che Dio è quello che permette queste guerre?” va presa sul serio. Ma dicevo loro: dalla mia prospettiva in questo momento Dio è in croce a Gaza. E se Dio è  lì io voglio essere dove è Lui. Questo dà molta forza anche adesso. L’anno scorso, come in questi giorni, ero a Bergamo presso l’infermiera della nostra Casa e ricordo di aver passato tutto il giovedì santo, compresa la notte, accanto ad una sorella che stava morendo. Mentre ero lì, ho capito di nuovo che il nostro Dio non è un crocefisso morto ma un Dio che è presente anche nel tragico della storia. E’ un Dio che trasforma e dà la vita. E la vita è più forte, la morte non è l’ultima e definitiva parola. Anche se tutto pare dire il contrario. E’ il senso della Pasqua che abbiamo celebrato e che celebriamo ogni giorno quando scopriamo dentro e accanto a noi feritoie di luce e di speranza. Nonostante tutto”.

 

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