Europe, Italy, Milan, Via Bernardino Luini, 5
+39.02.86.99.56.18
segreteria@aclilombardia.it

La Chiesa in crisi e il suo futuro. Intervista a Roberto Righetto/02

La Chiesa in crisi e il suo futuro. Intervista a Roberto Righetto/02

[di Daniele Rocchetti, delegato regionale alla vita cristiana]


Usi parole severe nei confronti della Chiesa italiana non all’altezza delle sfide del tempo presente. Cosa potrebbe/dovrebbe fare? Quali le urgenze e le priorità?

Alcune cose le ho già dette. Aggiungo una postilla dopo il clamore suscitato dalla intervista del Papa a Fazio e dal libro-intervista El Sucesor, che hanno rinfocolato una polemica sull’eccessiva esposizione mediatica della Chiesa cattolica e dei suoi rappresentanti.

E’ il tema dell’inaccessibilità del divino che si ripropone, e che costituiva il fulcro della serie tv “The young pope” realizzata da Sorrentino cui ne è seguita una seconda, “The new pope”. Il giovane papa interpretato da Jude Law rifiuta, almeno nei primi tempi, ogni contatto con i fedeli e sceglie di non mostrarsi in pubblico per evitare che il messaggio cristiano subisca la contaminazione postmoderna e si riduca a esibizionismo e spettacolo. Al di là dei toni provocatori messi in risalto dal regista napoletano, tutto ciò costituisce un richiamo essenziale: forse la Chiesa a partire da qualche decennio comunica troppo?

In questione è la ‘macchina’ del cattolicesimo, il complesso conglomerato delle iniziative di parrocchie, gruppi e movimenti: non sarebbe meglio puntare sull’essenziale? Non si tratta certo di ritirarsi dal mondo, ma di optare per la parsimonia, per la custodia del silenzio e del mistero.

Ma qui si ritorna a un punto che ritengo cruciale e drammatico che sottolineavo nel mio articolo di Avvenire: l’afonia della Chiesa italiana e dei suoi leader durante il periodo della pandemia. I vescovi si sono rivelati perlopiù incapaci di accompagnare chi veniva colpito pesantemente dal Covid e di pronunciare parole in grado di lenire la sofferenza dando un senso alla morte; solo parzialmente la voce del Papa – soprattutto la sera del 27 marzo 2020, in quel momento solitario di preghiera in piazza San Pietro – e il concreto operato di singoli sacerdoti hanno saputo far fronte a questo immenso dolore, parlando finalmente di speranza e resurrezione.

La nostra Chiesa si è rivelata nel suo complesso inadeguata, in una situazione che da molto tempo peraltro vede quella cattolica come una cultura socialmente insignificante. Del resto, durante il lockdown c’era chi si lamentava per le chiese vuote non potendo celebrare i riti, ma ora alle messe domenicali i fedeli sono dimezzati! E non credo sia per paura, ma per disaffezione. Non a caso ho citato un articolo di un anno fa di Antonio Polito uscito su Sette, il settimanale del Corriere della sera, dopo i funerali di un ragazzo morto in un incidente stradale a Roma, in cui durante l’omelia il parroco ha parlato della resurrezione. Il cristianesimo ha parole decisive sulla morte e sulla resurrezione, sul senso della vita e sulla vita eterna: perché non le dice più – si chiedeva il giornalista, da laico – in un mondo che sembra non aspettare altro? Ecco, della Chiesa questo anch’io vorrei innanzitutto salvare, oltre che l’impegno educativo e caritativo, che sono caratteri dominanti ma non possono essere esclusivi. 

Papa Francesco continua a sostenere che non bisogna partire dalle teorie, serve piuttosto rielaborare l’esperienza concreta. Immergersi nella concretezza e pure nella contraddizione dell’esperienza umana contemporanea e rileggerla alla luce del Vangelo…. Questo significa fare i conti anche con il dramma della storia e della vicenda umana…

In gran parte mi pare di aver risposto alle tue sollecitazioni, ma non posso eludere una questione fondamentale che tocca il futuro del cristianesimo.

Mi pare che la situazione del cattolicesimo, in Italia e in Europa, sia di grave, spaventosa crisi, di cui i vescovi e i sacerdoti italiani faticano a rendersi conto. Crisi che un teologo fine come Tomas Halik, già amico del presidente ceco Havel, nel suo importante libro recente Pomeriggio del cristianesimo accosta a quella che nel Cinquecento diede origine alla Riforma protestante: allora la causa scatenante furono la corruzione e la simonia della Curia romana, dei vescovi e del clero, oggi sono stati gli scandali degli abusi sessuali.

Tanti invocano riforme radicali, e papa Francesco ha intrapreso decisamente fin dall’inizio del pontificato questa strada, ma il processo di rinnovamento pare essersi bloccato e l’impasse non sembra finire, anzi. Inevitabile porsi la domanda cruciale sul futuro del cristianesimo. Io vedo confrontarsi due tendenze. Una, del tutto pessimistica, è stata ben espressa dal saggista americano Rod Dreher, che nel volume Opzione Benedetto ha voluto rilanciare il ruolo del cristianesimo come “minoranza creativa” in un Occidente a suo dire pienamente secolarizzato. Per il super-conservatore Dreher, già metodista poi cattolico e infine approdato all’ortodossia, è al modello dei monasteri come fari di civiltà creato da Benedetto da Norcia nel VI secolo, in un’Europa che aveva visto il collasso dell’Impero Romano, che i cristiani devono oggi rifarsi per ricostruire una presenza in un mondo postcristiano.

Appoggiandosi sulle giuste riflessioni di Guardini, Lewis, McIntyre e Taylor, i quali hanno certamente criticato una linea del pensiero moderno che tende a emarginare il cristianesimo, Dreher giudica l’approdo della civiltà occidentale in termini apocalittici. Dimenticando che il processo di secolarizzazione ha avuto anche effetti benefici sul pensiero cristiano perché l’ha depurato dalle incrostazioni ideologiche: è tutta la lezione del Concilio ad essere ignorata. Le sue tesi piacciono ai cristiani “identitari”, che pur partendo da un’intuizione corretta, quella di ricostruire una civiltà dall’anima cristiana che si è smarrita nella nostra Europa, si chiudono in sé stessi e subiscono la tentazione di essere perfetti, convinti di appartenere al clan dei giusti. 

L’altra tendenza che vedo prevalere è quella che si ispira al modello di Tibhirine. Coloro che vedono in questa situazione di crisi un’opportunità, quella di tornare alle origini, desiderano, come dice il teologo canadese Walter Vogels nel libro Il piccolo resto nella Bibbia «un’umile, piccola Chiesa, lievito nell’impasto, granello di senape, luce per il mondo». I monaci di Tibhirine, la cui storia è stata mirabilmente raccontata nel film Uomini di Dio, capaci di una presenza umile ma reale in terra musulmana e per questo divenuti martiri, possono costituire un riferimento, sulla scia di una lunga tradizione che va dalla Lettera a Diogneto a Charles de Foucauld. Si apre insomma la possibilità di ritrovare la natura vera ed essenziale della Chiesa, che si deve purificare abbandonando ogni compromissione col potere. 

Da parte mia, non condivido certo i noti profeti di sventura che rimpiangono i bei tempi andati e mettono sotto accusa tutta la cultura moderna. Ma nemmeno coloro che si limitano a guardare alla crescita numerica dei cattolici al di fuori dell’Europa e perciò non si preoccupano più di tanto.

Piuttosto, anch’io sono più propenso a vedere in questa drammatica crisi una chance di cambiamento. Si tratta forse di ripartire proprio dal “resto”, da coloro che rimangono legati alla Chiesa e continuano ad impegnarsi e a trasmettere la fede alle nuove generazioni. L’ha rilevato più volte Benedetto XVI, che profeticamente in una conferenza del 1969 alla Radio bavarese vedeva la Chiesa di oggi come «una realtà più piccola, più povera, quasi catacombale, ma anche più santa. La rinascita sarà opera di un piccolo resto, apparentemente insignificante eppure indomito, rinato attraverso un processo di purificazione. Contro il male resisterà il piccolo gregge».

Per questo non vedo male l’ipotesi, lanciata dal sociologo Paolo Sorbi, di un periodo di ‘cattività avignonese’, stavolta scelta e non imposta, da parte della Chiesa cattolica: il trasferimento del Vaticano in Asia, Africa o America Latina – lui suggerisce Hong Kong – come momento di purificazione e di snellimento della burocrazia. A Roma dovrebbero restare solo i Musei Vaticani, mentre tutti i vescovi e preti dovrebbero non stare più chiusi negli uffici ma fare attività pastorale e missionaria. Proposta radicale? Certo, ma salvifica!

Infine, credo che ci debba essere posto per tutti nella Chiesa, per progressisti e conservatori, per chi si sente di sinistra o di destra.  E, sia detto en passant, non è che non debbano o possano esistere le polemiche intra-cristiane, che ci sono sempre state e sempre ci saranno, ma la polarizzazione delle opinioni fa sì che spesso non si riesce a cogliere il positivo in opere che si giudica contrarie al proprio punto di vista, se non addirittura nemiche. Ma questo è per me un fenomeno da cui deriva un impoverimento per tutto il pensiero cristiano.

Con grande sapienza hai diretto per molti anni le pagine culturali di Avvenire. Se tu dovessi proporre alcuni autori di narrativa del Novecento che abilitino a questo “stile” chi ti sentiresti di indicare?

Non sono un critico letterario, ma questo è certamente un argomento che mi sta molto a cuore: l’arte, la letteratura, o meglio la bellezza. Temi richiamati più volte, e giustamente, ma secondo me è come se mancasse oggi chi sa raccontare il cristianesimo, chi sa fare del cristianesimo un fatto che viene narrato attraverso espressioni artistiche, che siano romanzi o opere figurative.

Pensiamo all’ebraismo: a quanti libri sono usciti negli ultimi decenni per tenere viva la memoria del popolo ebraico, ed è giusto e bene che sia così. Testi letterari che raccontano la drammatica vicenda dell’Olocausto ma non solo, anche perché l’espressione narrativa assume tante forme diverse. E mi veniva da constatare come invece sia sempre meno frequente vedere la stessa capacità di espressione in ambito cristiano, almeno in Italia. Un discorso che si riallaccia ancora una volta alla necessità di non disperdere il patrimonio culturale, che non può essere conservato come se fosse soltanto un museo! 

        Mi è capitato d’incontrare vari anni fa Divo Barsotti, il mistico e teologo, che in un’intervista mi diceva proprio la stessa cosa. Lui addirittura era perfino più radicale, diceva che l’ultima grande leggenda cristiana, ove per leggenda intendeva ovviamente non un qualcosa di falso, ma un grande modello capace di dare una grande spinta creativa, era quella francescana.

Quindi risaliva molto, molto indietro, ripensava a tutto quello che è successo dopo Giotto, Beato Angelico, l’Umanesimo e il Rinascimento e diceva che l’ultima grande leggenda in questo senso era quella chassidica, che aveva prodotto l’arte di Chagall, la letteratura di Kafka, la musica di Bela-Bartok, il pensiero di Buber e di Heschel, quindi una grande realtà creativa, non solo filosofica, ma anche artistica. Non so se tutto ciò che diceva è vero, probabilmente aggiungerei che l’ultima grande spinta che è stata capace di unire cristianesimo e la letteratura è venuta dalla Francia nel ‘900, con Bloy, Péguy, Bernanos, Mauriac, Julien Green.

Ma io credo che nel ‘900 l’Italia sia stato il Paese europeo in cui meno la teologia ha influenzato il mondo della letteratura e quello delle arti. Sono stati necessari alcuni grandi critici letterari provenienti dal mondo anglosassone e non dichiaratamente credenti, George Steiner, Harold Bloom e Northrop Frye, a doverci ricordare che la Bibbia è stato il “grande codice” della cultura occidentale.

Se pensiamo invece ad altre grandi nazioni europee, dalla Francia all’Inghilterra a tutto l’Est europeo e alla Russia, c’è stata una fortissima incidenza da parte della teologia sulla letteratura, sul modo stesso di concepire l’espressione narrativa.

Viene in mente ovviamente Dostoevskij, ma il discorso vale anche per il mondo nordamericano, da Flannery O’Connor a Francis Scott Fitzgerald, da Marilynne Robinson a Toni Morrison, da Alice Munroe a Joyce Carol Oates fino al compianto David Foster Wallace, autore di una tesi su sant’Agostino.

D’altra parte, la vera letteratura è sempre in qualche modo religiosa. Pensiamo perfino ad un autore come Stephen King, che ha uno dei suoi punti di forza nelle manipolazioni di temi religiosi o comunque attinenti alla sfera del sacro, primo fra tutti la morte. Per non parlare di Philip Dick, che qualcuno ha definito il Kafka del XX secolo. O anche a Cormac McCarthy: il suo romanzo La strada non è altro che il viaggio di un padre e di un figlio alla ricerca di una vita possibile sul filo della fine del mondo, un mondo in cui Dio è assente ma perennemente invocato.

O, tornando agli autori francesi contemporanei, a Michel Houellebecq e a Emmanuel Carrère. Col suo Il regno, un’inchiesta sul Vangelo di Luca condotta mescolando indagine storica e racconto autobiografico, Carrère ha compiuto una serissima investigazione sulla sostanza dell’annuncio cristiano. Ancora, ricordo il caso dello scrittore Eric-Emmanuel Schmitt, autore del libro Il Vangelo secondo Pilato, o del filosofo François Jullien, che ci ha sorpreso con il suo Risorse del cristianesimo in cui rilegge il Vangelo di Giovanni.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Skip to content