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Intervista a Romano Prodi

Intervista a Romano Prodi

[di Daniele Rocchetti, delegato regionale alla vita cristiana]

L’Europa, le difficoltà attuali.
I ricordi personali. I grandi protagonisti: De Gasperi, Schuman, Adenauer, Delors…
Le prospettive future

“Il 2024 è l’anno delle grandi elezioni. Due miliardi di elettori, metà della popolazione adulta del globo, andranno a votare: in India come in Russia, in Europa come, il prossimo novembre, negli Stati Uniti. A prima vista parrebbe il trionfo della democrazia, in realtà politologi illustri parlano di ‘crisi della democrazia’. E’ venuto il tempo di non dare per scontato più niente e di avviare, quanto prima, un rinnovamento delle regole sulle quali sinora si è fondato il patto democratico oggi messo duramente alla prova. Facciamo in modo di mandare al Parlamento Europeo persone competenti e squadre che durino nel tempo. Andare in Europa è un onore, non un premio di consolazione.”  

Incontro Romano Prodi nella sua casa di Bologna, non lontano dallo splendido complesso di Santo Stefano, dove ha abitato con la moglie Flavia per più di cinquant’anni. Si appassiona quando parla di Europa, quando mi spiega con ragionamenti alternati a molti ricordi personali la sua “indispensabilità”. “Ce lo siamo dimenticati ma l’Europa è stato il più grande laboratorio di politica che abbiamo mai avuto. Solo la nostra miopia lo sta trasformando in un museo”.

Due volte Presidente del Consiglio italiano (1996-1998 e 2006-2008), Romano Prodi è stato Presidente della Commissione Europea (dal 1999 al 2004). Una figura di primo piano per ragionare attorno alle sfide legate alle elezioni europee del prossimo 9 giugno. Mentre stiamo conversando, un amico lo chiama al cellulare. Parte la suoneria e sorrido. E’ l’inno alla Gioia, scritto da Friedrich von Schiller e messo in musica da Ludwig Beethoven nella Nona Sinfonia. L’inno dell’Unione Europea.

Ti ho visto presente al funerale di Jacques Delors: che ricordo hai di lui?

Lasciami dire anzitutto che sono rimasto colpito dall’ultimo saluto pubblico. A Parigi, nella corte d’onore degli Invalides, c’erano tutti i leader europei, da Ursula von der Leyen a Roberta Metsola, da Christine Lagarde a Frank Walter Steinmeier, presidente della Repubblica tedesca, da Charles Michel ai premier di Olanda e Belgio. La cerimonia di Stato è stata solenne e poi alla fine, al momento dell’uscita, è avvenuto qualcosa di commovente: le autorità tutte ferme, i familiari dietro la bara e i ragazzi dell’Erasmus, il programma che con lui ha preso avvio, che suonavano musica jazz. Finiva l’aspetto del ricordo ufficiale e sulle note di questa orchestra andava via la salma con l’affetto dei suoi cari e la speranza dei ragazzi. Delors, a cui ero legato da profonda amicizia, è stato un uomo che ha davvero messo le fondamenta di una Europa operativa, con un mercato comune e regole sociali; un’Europa che ha continuato a progredire per un certo numero di anni con l’euro, con l’allargamento, la riforma della commissione, un progetto di costituzione faticoso e frutto di tanti compromessi ma molto bello. 

Ne parli come se ora tutto si fosse bloccato…

Bisogna riconoscere che ad un certo punto l’Europa ha cambiato direzione. E’ cambiato il ruolo della Commissione che si è trasformata in un organo tecnico e non ha saputo tenere in mano il filo della grande politica europea, il potere è passato in mano al Consiglio che è l’insieme degli Stati, quindi l’Europa è sempre più diventata nazionale e non sovranazionale. Accompagnata da una cosa incredibile, cioè la regola dell’unanimità per le cose più importanti. Il diritto di veto fa di ogni nano un gigante e di conseguenza porta alla paralisi e la possibilità dei vari Orban di turno di bloccare il cammino europeo. Ricordo spesso che quando scegliemmo l’euro non venne applicata l’unanimità: aderirono soltanto 12 Paesi e gli altri si sono aggregati dopo. La vera paralisi dell’Europa è oggi l’unanimità. Bisogna andare velocemente verso una riforma istituzionale che porti ad una maggioranza qualificata. L’allargamento lo impone. Noi non l’abbiamo fatto ma era in programma di farlo. Ora è venuto il momento.

All’inizio dell’avventura europea, tra gli altri, c’erano Schuman, Adenauer e De Gasperi: tre uomini nati sui luoghi di frontiera, tre cristiani, tre grandi politici. 

Ho molto riflettuto sull’incredibile anomalia di questi tre statisti. La casa di Schuman – un uomo che aveva fatto la Resistenza e imprigionato dai nazisti – appare più un convento che una casa, è impressionante la sua religiosità. Lo stesso si può dire di De Gasperi e Adenauer. Sono le incredibili convergenze della storia: Schuman ha rappresentato al meglio un Paese profondamente laico come la Francia, Adenauer venne messo da parte dai nazisti, De Gasperi dai fascisti. Tutti e tre erano cattolici e parlavano tedesco, mostrando un aspetto di confidenza diretta che ha permesso loro di prendere decisioni fondamentali. Certo, la storia è impossibile da ripetere. Soprattutto adesso quando ogni decisione viene presa dopo infinite discussioni e pratiche burocratiche. Questa radice cristiana si è conservata a lungo. Ricordo il mio primo incontro con Helmut Kohl. Era il 1996 e avevo da poco vinto le elezioni. Sulla carta pareva un appuntamento complicato perché venivamo da due schieramenti politici diversi. Eppure, conversando insieme, scoprimmo di avere letture comuni e tra queste i testi del grande filosofo Romano Guardini. 

Un crescente sovranismo serpeggia in molti paesi dell’UE. Come è possibile recuperare l’idea federalista e renderla popolare fra i cittadini dell’Unione?

Facendo le cose perché è l’Unione paralizzata che esalta il sovranismo. Quando abbiamo avuto una visione e lavorato per realizzarla, anche se dura e non da tutti condivisa, l’Europa era amata. Anche quando si chiedevano sacrifici. Pensa all’introduzione dell’euro: la gente ha compreso che era un progetto che avrebbe prodotto frutti. Quando l’Europa, nella grande paralisi della crisi finanziaria, ha smesso di essere la madre di tutti, è cresciuto il sovranismo. Durante il Covid c’è stato un intervallo ma poi si è di nuovo tornati all’Europa dominata dal Consiglio in cui prevale l’unanimità e l’immobilismo. 

Cosa fare?

La ricetta è semplice. La guerra in Ucraina ha prodotto cambiamenti di forza profondi all’interno del nostro continente che nella guida è sempre stato diretto dal binomio franco-tedesco, tedesco nell’economia, francese nella politica internazionale. In un solo giorno, durante le prime settimane del conflitto, la Germania ha cambiato la sua politica che durava da 70 anni e ha deciso di moltiplicare i fondi per la difesa che oggi risultano più del doppio di quelli francesi. Si sta preparando una Europa con un solo Paese leader. I francesi lo negano perché sostengono che la loro forza e tecnologia militare sia migliore ma pezzo per pezzo stanno perdendo la loro influenza in Africa e quando c’è un bilancio così differente e c’è un Paese con una capacità industriale raffinata come quella tedesca non mi pare ci sia molto da fare. Intendiamoci non metto assolutamente in dubbio la democrazia tedesca: funziona meglio della nostra, non apriamo equivoci o stupidi paragoni storici. Basterebbe dunque che la Francia dicesse “la storia è cambiata” e mettesse a disposizione il diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza ONU, l’arma nucleare… Non ci potrà mai essere una difesa comune europea se un Paese ha diritto di veto e un’arma nucleare e gli altri non ce l’hanno. Non ha alcun senso pensarla. Se la Francia passasse il diritto di veto e l’arma nucleare all’Europa il giorno dopo si fa l’esercito europeo e la politica estera europea. E l’Europa tornerebbe ad essere la speranza del mondo. Con l’Europa che ritorna a risolvere i problemi, quelli grandi non quelli piccoli, in un giorno finisce il populismo.

L’Europa indispensabile anche per la pace

Sì, perché se non lo siamo scompariamo. Dobbiamo tornare ad essere un punto di riferimento e avere la forza di mediare la pace. E se parliamo di pace e poi la Sardegna è più vicina all’Africa che all’Italia e in Libia comandano Russia (che è l’80% del prodotto nazionale italiano) e Turchia (che è l’80% del prodotto nazionale spagnolo) cosa possiamo fare? Dobbiamo essere realisti: la pace la fa chi comanda. Oggi nel mondo nulla è possibile senza un’intesa fra Stati Uniti e Cina.

Quanto è Europa la Russia? 

Lo è stata fino a non molto tempo fa. Non possiamo dimenticare il grande avvicinamento dopo la fine del comunismo. Ricordo di aver assistito a un vertice NATO-Russia – con Eltsin e Chirac che presiedevano – dove le ipotesi di collaborazioni erano concrete. Ricordo anche che nell’ultimo summit della mia Commissione, nello scambio finale Russia-UE, un autorevole giornalista russo chiese a Putin e a me quando la Russia sarebbe diventata membro dell’UE. Disse ‘quando’ non ‘se’. Io risposi che la Russia era troppo grande ma c’erano le basi per la collaborazione e feci la battuta “in fondo possiamo un pò mescolarci come whisky e soda” e Putin disse: “no, come vodka e caviale!” Questo era il tipo di rapporto. Quando feci l’allargamento c’erano otto Paesi che appartenevano al patto di Varsavia. La reazione di Putin fu chiara ed esplicita: “nessun problema con l’Unione Europea ma non voglio la NATO ai miei confini”. Con il distanziarsi dall’Occidente Putin ha iniziato ad adottare una dottrina di crescente accentramento del sistema. Non come nostalgia dell’URSS, ma della grande madre Russia, la Russia imperiale, il grande accordo con la Chiesa Ortodossa, il popolo russo e la sua vasta estensione territoriale. Poi è arrivata la conquista della Crimea e quello che è successo dopo, con una responsabilità non leggera da parte della Chiesa, quando il patriarca di Costantinopoli ha riconosciuto – pur in una situazione complicata di più Chiese – la Chiesa autocefala ucraina.

Guardando lo stato attuale dell’UE ti senti sconfitto o no?

No, perché l’Europa esiste ancora ed ha grandi potenzialità! Perché se non avessimo fatto l’euro e l’allargamento pensa in che tragedia ci troveremmo. Smettiamola di dire che l’euro è solo una moneta. Dietro l’euro non c’era solo finanza ma una visione di pace. Ora siamo in una situazione complicata e di ritirata ma ci siamo ancora. E noi siamo ancora in pace, mentre attorno è tutto guerra.

Permettimi una domanda personale: quanto ti manca Flavia?

Moltissimo, più di quanto non pensassi. Abbiamo vissuto e condiviso tutto per più di cinquant’anni. E’ un colpo durissimo perché fai fatica, non sai come comportarti. I primi mesi ho accettato tutti i lavori che mi proponevano. Poi ho voluto prendermi un periodo di riposo ma è stato talmente brutto che ho di nuovo accettato di fare il predicatore nelle università e nelle scuole medie, tornare a fare seminari in Cina e tenere un po’ di lezioni negli Stati Uniti.

 

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