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Il mondo cattolico e la cultura che non c’è. Intervista a Roberto Righetto/01

Il mondo cattolico e la cultura che non c’è. Intervista a Roberto Righetto/01

[di Daniele Rocchetti, delegato regionale alla vita cristiana]

Nel mondo cattolico c’è «molta morale, poca comunità, zero cultura». Così Pierangelo Sequeri, teologo.
Molte le discussioni su questa ormai cronica carenza dei cattolici italiani.
Nostra intervista con Roberto Righetto, già responsabile delle pagine culturali di “Avvenire”, il giornale dei vescovi italiani

Sulle pagine di Avvenire aveva cominciato, con una serie di articoli, mons. Pierangelo Sequeri. «Molta morale, poca comunità, zero cultura», questa era l’analisi impietosa che veniva fatta del cattolicesimo italiano, la sua scarsa attenzione verso la cultura da parte della Chiesa e la sua profonda incapacità di incidere nella vita pubblica. A seguire vi è stato un contributo, magnifico, di Roberto Righetto, per trent’anni responsabile delle pagine culturali del quotidiano dei vescovi italiani e coordinatore di Vita e Pensiero, rivista culturale dell’Università Cattolica. Righetto con grande lucidità e coraggio ha elencato le sfide a cui siamo chiamati e, insieme, ha mostrato i molti ostacoli che impediscono alla comunità cristiana di prendere sul serio l’umano della vita e della storia.

Ho chiesto a Righetto di approfondire alcuni temi. Questa è la prima parte del nostro dialogo.

Caro Roberto, partiamo dal titolo del tuo articolo: perché i cattolici faticano a rispondere alle sfide culturali?

Sono partito da una semplice constatazione: la svalutazione della cultura da parte della Chiesa e del mondo cattolico italiano. E’ un fenomeno universale e trasversale, che tocca vescovi e preti, ma anche i laici. E’ rarissimo leggere pronunciamenti del magistero che affrontino la questione, ed è difficile trovare parrocchie che investano tempo e soldi per realizzare iniziative culturali. Si tratta di un limite che abbiamo avuto negli ultimi decenni noi cattolici in Italia: si è verificata una sorta di abbuffata di attivismo e di sociologismo dagli anni ’70 in poi.

A mio parere aver ignorato e sottovalutato il mondo della cultura da parte di noi cristiani è stata una delle colpe più gravi, particolarmente nel dopoguerra. Ci sono responsabilità pesanti che si sono manifestate  nel corso del ‘900 e secondo me questa è anche una delle cause profonde del fallimento del cosiddetto “partito cattolico”.

Negli anni scorsi si sono fatte sui giornali inchieste a proposito dell’egemonia culturale marxista; avendo diretto per trent’anni le pagine culturali di Avvenire ricordo quante parole si sono spese, e giustamente, pensiamo ai libri di testo nelle scuole e a come certi argomenti sono stati trattati. Tutto vero, però certamente c’è stato uno spazio che è stato totalmente abbandonato da parte di noi cattolici, forse pensando solo alla politica; io non ho i titoli per fare processi a nessuno, però certamente la mancanza è stata molto, molto grave.

E ora la situazione è sensibilmente peggiorata.  Nel mio articolo, senza la pretesa di dare lezioni a nessuno e ancor meno di rivangare stagioni del passato – penso al Progetto culturale – ho voluto solo ribadire un concetto chiave per la presenza storica del cristianesimo in Europa e in Occidente, l’importanza della cultura. Come ho scritto, per porsi come segno di contraddizione, come lo erano le prime comunità cristiane, occorre accettare secondo me due sfide: il primato della cultura – e la riscoperta dell’immenso patrimonio teologico del cristianesimo – e la consapevolezza che l’evangelizzazione oggi si svolge attraverso il bello e il buono. Per questo ho rilevato che dinanzi allo spaventoso analfabetismo religioso del popolo italiano, cattolici compresi e dei giovani in particolare, occorrerebbe che la Chiesa italiana tutta si facesse promotrice di un’iniziativa di largo respiro per superare l’attuale grave stato di stagnazione della cultura cattolica: la cultura è svalutata e si fa coincidere l’impegno nel sociale solo con la carità.

Ma la fede cristiana non si esprime al di fuori della cultura (o delle culture) e c’è bisogno di un nuovo immaginario della fede che attragga i giovani. E senza cultura non è possibile. Questo a mio parere è il primo compito dei laici nella Chiesa: riscoprire la cultura. Nella mia lunga attività di giornalista culturale ho sempre pensato che senza cultura non ci sia cristianesimo ma anche che senza cristianesimo non ci sia cultura, almeno in Occidente. 

Tu accenni al pericolo e alla tentazione di ridurre la fede alla morale, ad un ricettacolo di buoni comportamenti, al solo impegno sociale o caritativo. Come custodire la differenza cristiana dentro un tempo sempre più secolarizzato?

Per rispondere parto da due sfide, due constatazioni che interpellano tutti noi credenti.  In primo luogo,  le nuove forme dell’industria culturale e dell’informazione che la veicola in modo massiccio e uniforme. È diventato sempre più difficile esprimere e diffondere idee non omologate, dare risonanza alle voci che non sono organiche al sistema economico e tecnoscientifico, che hanno espropriato l’editoria, la stampa, i media e proclamano quelle loro verità relative, nella ripetizione di luoghi comuni che alimentano chiacchiere di posizione contrabbandate per dibattito culturale.

Segnalo poi che in Francia, dove il cattolicesimo è in crisi profonda di fedeli e praticanti ma è ancora presente una notevole effervescenza intellettuale, è in corso una discussione a mio modo di vedere rilevante sulla presenza (e sulle sorti) del cristianesimo e molti di coloro che sono intervenuti, ad esempio sulle colonne della Croix, hanno usato la definizione di “controcultura”.

In Italia dibattiti aperti su questi temi sono rari, il mondo cattolico è afflitto da pigrizia intellettuale. Ma la questione è decisiva: si tratta dell’engagement cristiano capace di esprimere una resistenza culturale e spirituale insieme, una testimonianza evangelica che, come continuamente richiama papa Francesco, non si ammanta di esibizionismo, ma si realizza nei gesti quotidiani. In questo senso, più che di “controcultura” sarebbe corretto parlare di un diverso orientamento di vita. Segno di quella che il teologo ortodosso Olivier Clément prefigurava come un “cristianesimo della libertà”, non più fondato sulla rivendicazione del potere e sull’ossessione della sessualità: un cristianesimo rinnovato, una religione dei volti e della bellezza. 

Poi, la seconda sfida cui voglio accennare è che la messa in discussione del paradigma della modernità, che portava con sé la liquidazione del sacro attraverso un processo crescente di secolarizzazione della vita, ha sì condotto al ritorno della religione come fattore rilevante per le nostre società, ma con aspetti contraddittori che vanno esaminati. Un sociologo che ha segnato gli ultimi decenni, Zygmunt Bauman, ha denominato la religione postmoderna come una “religione minima”, fatta di una spiritualità flessibile, slegata dai dogmi e dalla razionalità che ha distinto la civiltà occidentale. In poche parole, una religione senza Dio.

Credo che occorra interrogarsi sui tratti di questa nuova forma di religione. Io vedo tre orientamenti emergenti, tre riferimenti culturali: la riscoperta delle filosofie orientali, che rappresenterebbero una via meno impegnativa rispetto all’impianto ebraico-cristiano e che unirebbero più pacificamente meditazione e riflessione in un’esperienza religiosa capace di dare sollievo al corpo e allo spirito; il ritorno del politeismo, il quale permetterebbe di spezzare la propensione alla violenza del monoteismo, che ancor oggi spesso presenta il volto del fondamentalismo; infine un nuovo ateismo, in grado di allargare gli spazi a una spiritualità plurale e soprattutto senza Dio.

Tutto ciò dà luogo a un nomadismo spirituale, a una religione fai da te che rifiuta qualsiasi Chiesa. Per quanto riguarda la moda delle filosofie orientali, ricordo un lucido intervento di Slavoj Žižek in cui il filosofo sloveno accreditava il buddhismo come la filosofia più appropriata per la globalizzazione e il neocapitalismo tecnologico imperante. Le religioni orientali sarebbero l’antidoto più valido contro lo stress della vita moderna perché consentono di ritrovare la via per una pace interiore; non solo, esse possono convivere benissimo con il mondo postindustriale avanzato e anzi ne diventano il perfetto completamento ideologico. Tutto il contrario del cristianesimo, il cui elemento sovversivo e rivoluzionario costituisce la critica più forte alle dinamiche contorte dello sviluppo economico e tecnologico che provocano sempre più evidenti diseguaglianze. 

         Dinanzi a queste nuove sfide e provocazioni, il cristianesimo non può certo reagire arroccandosi o pensando di combattere una guerra, anche se culturale. Innanzitutto, si tratta di riconoscere la genuinità della ricerca religiosa post-secolare dato che alcuni suoi segni, dal desiderio di benessere alla volontà di realizzare il proprio io, dalla nuova fenomenologia della mistica all’amore per la terra, non sono affatto lontani da una vera esperienza cristiana. Esiste un’abbondante tradizione teologica che tende a separare l’esperienza cristiana dalla religione: basta rileggersi Tillich e Bonhoeffer.

Non solo, durante il ‘900 c’è stata una ricchissima elaborazione del pensiero cristiano che ha messo in crisi la metafisica onnicomprensiva che aveva dominato in passato. Pensiamo alla crisi del concetto di onnipotenza di Dio, anche in seguito alle domande suscitate dalla tragedia della Shoah che hanno posto in discussione ogni teodicea. Von Balthasar e Rahner hanno scritto cose illuminanti a proposito di questa svolta da parte del cristianesimo nel vedere Dio. Concetti ribaditi da pensatrici come Simone Weil ed Etty Hillesum. 

Ma certamente la rinuncia spesso verificatasi da parte della Chiesa di una predicazione sulla vita eterna, che sapesse valorizzare il patrimonio della patristica e della mistica e al contempo non escludesse l’orizzonte dell’esistenza concreta, è uno dei motivi dell’affermarsi della spiritualità senza Dio del nostro tempo, di forme di religiosità capaci di suscitare nuove emozioni. Di fronte a questo, cosa abbiamo da dire? Io penso molto, ma non esiste un vero spazio di riflessione, ci si adagia sulle iniziative concrete e Dio sa quante bellissime realtà ancora operano nel nostro mondo a livello sociale e caritativo, ma l’elaborazione culturale? La fede ha bisogno anche di teoria, non solo di pratica.

 La vicenda cristiana presenta un paradosso. Da una parte non può essere identificata con una cultura, dall’altra la fede per essere incarnata ha bisogno di confrontarsi in maniera adeguata con la cultura del tempo nelle sue diverse forme. Ai cattolici italiani pare spesso che manchi una grammatica umana di riferimento per cui abbonda quella tu chiami “sciatteria culturale”. Quali sono a tuo avviso le ragioni?

Una domanda che solleva un’altra domanda: la Chiesa deve abbandonare l’Occidente ormai destinato alla completa secolarizzazione? E rassegnarsi al fatto che il calendario cristiano, con le sue feste e i suoi riti, si trasformi in un calendario fatto di feste laiche e consumistiche come sono ormai ridotti il Natale o la Pasqua? Io credo di no.

Ci mancherebbe altro, tutti constatiamo come l’apporto anche numerico al cristianesimo oggi nel mondo venga da quelle che un tempo erano periferie, Africa, Asia e Sudamerica, ed è necessario e indispensabile che l’apporto delle giovani Chiese sia valorizzato e considerato, lasciandoci alle spalle la convinzione di un cristianesimo solo espressione della cultura occidentale. Ma al contempo, non possiamo buttare a mare secoli di tradizione e di cultura. Pensiamo agli effetti deleteri della cancel culture, che è diretta in parte a colpire simboli e personalità della cultura cristiana.

D’altra parte, secondo me , bisogna anche essere capaci di uscire da un complesso di inferiorità che per tanti anni  ha colpito noi cristiani, un complesso di inferiorità per cui accadeva che difficilmente un autore cristiano aveva diritto di partecipare al forum, alla piazza del dibattito culturale; ciò accadeva in parte per l’arroganza di una certa cultura laicista, ma anche per una incapacità da parte nostra di essere consapevoli della forza e dell’originalità della propria cultura. Avere una determinata cultura non è affatto un handicap, non è affatto una condizione di inferiorità in partenza, anzi deve essere qualcosa che ci dà forza, tenendo presente poi la capacità di saper dialogare con tutti, anche i più lontani.

E c’è un altro elemento che noi cristiani dobbiamo recuperare ed è la capacità di essere curiosi verso tutto, quella curiosità che va di pari passo con una passione per la verità, come dicevano gli autori latini: “Niente di ciò che è umano mi è estraneo”, scriveva Terenzio poi ripreso da Seneca e da vari altri. Quella curiosità che ci fa capaci di aprire gli orizzonti davanti a tutti gli avvenimenti, a tutte le culture, sapendo vedere il positivo ovunque si manifesti, nella consapevolezza che, come ha affermato il Concilio, i semi del Verbo si manifestano ovunque, anche dove non è riconosciuto.

Anche san Tommaso, peraltro, l’ha scritto. E’ la curiosità che ha animato le pagine culturali di “Avvenire” che ho diretto a lungo: un’apertura verso tutti i fenomeni della cultura, dalla scienza alla filosofia, dalle arti alla letteratura, dalla religione al costume. Aprendosi al contributo di tanti autori non credenti. Posto il fatto che oggi tante divisioni non hanno più senso, dopo il crollo dei muri e delle ideologie, così come è stucchevole da parte mia vedere la conclamata contrapposizione fra cattolici conservatori e progressisti. 

Ma permettimi di segnalare anche una delle carenze di fondo che spesso dimostra la cosiddetta cultura laica: come mi ricordava una volta lo scrittore Giuseppe Pontiggia, mentre gli autori religiosi sono abituati a studiare e approfondire tutti gli ambiti della cultura, i pensatori laici a volte restano chiusi, ignari del patrimonio letterario e teologico della cultura religiosa. Mi viene ancora una volta da rilevare come oggi vi sia carenza di figure pubbliche portatrici di un pensiero critico, capaci di scalfire e porre in discussione il sistema di potere. E questo, ahimé, vale anche in campo cristiano. Il clericalismo spesso denunciato da papa Francesco è tuttora dominante nella Chiesa, e i laici, le donne e i giovani trovano pochissimo spazio. I Sinodi realizzati o in corso sono serviti davvero a poco in questo senso.

Ma oltre a queste ragioni, più volte del resto richiamate, ne aggiungo  un’altra: la mancanza di un pensiero teologico libero e provocante negli ultimi decenni a livello europeo. La teologia cattolica si è rinsecchita e il pensiero cattolico ha perduto vitalità. Il mondo cattolico si è fatto più piccolo. Come intellettuali e come cattolici, siamo meno numerosi e senza dubbio meno brillanti, abbiamo molto meno influenza che in passato sui grandi dibattiti contemporanei.

Ma c’è una responsabilità di noi cristiani, una vera e propria ‘incultura’ teologica, filosofica e più ancora storica. Il che pare ancor più grave in un momento storico in cui il religioso vive in alcuni casi un ripiegamento identitario. Se penso a tanti film o libri nati direttamente dall’humus cristiano, non mi viene in mente praticamente nulla: c’è una produzione spirituale e teologica di livello bassissimo, soprattutto in Italia. Per questo ho parlato di paccottiglia e non me ne pento.

 

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