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Domenica 2 maggio

Domenica 2 maggio

Quinta domenica di Pasqua

(Gv 15, 1-8)
Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

COMMENTO DI DON OMAR VALSECCHI

Al cuore dell’intenso e appassionato discorso d’addio a cui Gesù si affida – secondo la comunità dell’evangelista Giovanni – per suggellare la propria testimonianza d’amore ai suoi amici, troviamo un’immagine molto cara alla narrazione biblica: la vite. In Isaia, Geremia, Osea, nei Salmi e nello stesso Cantico dei cantici troviamo molte testimonianze della cura con cui Dio, come vignaiolo innamorato, nutre il suo popolo. La vite e/o la vigna ci raccontano, anzitutto, l’amorevole dedizione con cui il Padre agricoltore elargisce e rivela le sue attese, i suoi sogni e la sua paziente sollecitudine; conoscendo delusioni, tradimenti, amarezze e alimentando tenacemente nuovi inizi. Lui, il Dio dei ricominciamenti, mai si stanca di immettere linfa nuova anche dentro quelle vicende in cui noi, invece, rischiamo spesso di arenarci. Gesù è la vite – quella vera/autentica – radicata nella storia del suo popolo: riassume in sé tutto il cammino comunitario di promesse e alleanze, a cui Egli stesso appartiene. È la vite-Figlio che finalmente compie la volontà del Padre, portandone i frutti tanto attesi: la giustizia, l’amore e il perdono. Lì nell’intimità della sua sera ultima – traboccante di commozione, abbandoni e incomprensioni – Gesù si identifica con questa realtà simbolica, per rivelare ulteriormente il senso e la profondità della propria relazione con il Padre e con i discepoli, insistendo particolarmente su due peculiarità: il rimanere/dimorare e il portare frutto.

Viene anzitutto sottolineata la dimensione della co-appartenenza, dell’intima empatia e interdipendenza reciproca tra la vite e i tralci: Lui in noi e noi in Lui; una stessa linfa! L’evangelista Giovanni ci fa compiere un ulteriore ‘salto’ rispetto al rapporto – già particolarmente pregnante – tra il pastore bello e le pecore, da lui stesso consegnatoci settimana scorsa. Tra pastore e pecore, infatti, risulta ancora facilmente riconoscibile la differenza dei soggetti, si distinguono esattamente “ruoli” e responsabilità; tra vite e tralci, invece, c’è immedesimazione, immersione dell’essenza dell’una in quella degli altri, avviene una comunanza di destino (“vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi”, ha detto il Cristo-vite pochi istanti prima, nel cap. 14).

Gesù intende instaurare una relazione a cui affidarsi, dandogli la possibilità di rimanere, di continuare a fare casa in noi e, nel contempo, dilata scenari di fecondità per la nostra stessa vita. Sono i nostri legami di appartenenza a renderci generativi. Divenire noi casa del Suo permanere come Parola in mezzo a noi, questa è la sfida (“se le mie parole rimangono/prendono dimora in voi…”); Lui, infatti, è la Parola che si è manifestata come amore fattivo, come realtà concreta, divenendo carne della nostra stessa carne. E Gesù stesso si fa, a sua volta, dimora, spazio di ospitalità delle nostre attese, dei nostri desideri (“Se dimorate in me…chiedete quel che volete e vi sarà fatto”). C’è un amore più grande del nostro – e che ci precede – che siamo chiamati ad abitare e che è come l’elemento primordiale di tutte le cose. Il senso dell’esperienza di fede in Gesù sta tutto in questa reciproca relazione, in questo legame di appartenenza profonda e di libera interdipendenza, capace di aprirsi e prodigarsi. Questo rapporto, questo innesto c’è già: è Lui ad offrircelo; a noi è affidata la scelta di rimanere, l’impegno della fedeltà. Ma, attenzione: si tratta di una relazione che non è fine a se stessa, la sua aspirazione travalica gli orizzonti ristretti di un benessere esclusivamente personale. Tale unione trova il suo scopo, la sua “verità” fuori di sé, in quel “portare frutto”.

Il frutto del tralcio, infatti, non è destinato alla vite stessa; serve ad altri. Il grappolo d’uva, il suo nettare aromatico e inebriante, non viene consumato dalla pianta che lo ha prodotto. Giovanni stesso ce lo ricorda ponendo, nel suo racconto, come principio dei segni compiuti da Gesù, proprio quell’eccedenza di vino buono a Cana, ad una festa di nozze. Il vino, prodotto dalla vite appunto, arreca gioia, è segno di gratuità e convivialità, di festa e di dono e lo si ottiene solo a seguito di una pigiatura, per poi richiedere tempo e pazienza. La vita cristiana, insomma, non è destinata a consumarsi in una “religione” narcisisticamente ripiegata su se stessa, non ha nulla a che fare con pratiche di devozione autoconsolatoria; ci spinge, bensì, sempre oltre noi stessi, ci espone per irradiare e portare a compimento ciò che l’amore attende: libertà, coraggio, giustizia, fraternità…

Per dirla con le parole di Balducci: “Il nostro Dio non è un principio che sta in sé richiamando il convertito all’immobilità fuori dal tempo. Al contrario: Egli è aperto al mondo in una dedizione inesauribile, è amore per il mondo, per cui non appena ci insediamo nella sua realtà siamo subito proiettati verso quel mondo da cui ci si voleva salvare. Amare veramente il Dio di Gesù vuol dire entrare con passione dentro la tribolazione del mondo, non starsene fuori. Vuol dire seguire una dinamica che potremmo anche considerare opposta a quella puramente religiosa. Il baricentro di una comunità che abbia le misure del cuore di Dio non è dentro ma è fuori, dove non c’è la stessa esperienza, dove c’è la sofferenza, l’attesa, il bisogno.

E c’è un dettaglio, nel testo di oggi, che trovo estremamente significativo: il termine “frutto” viene sempre declinato al singolare; l’unico frutto che siamo chiamati a portare, difatti, è la nostra fede che ci permette di riconoscere e testimoniare la continuità della presenza unica e irripetibile di Gesù nella storia.

Viene però anche prospettato il dramma di tralci secchi che non portano frutto: siamo di fronte al rischio – possibile dentro ogni comunità – di una pratica religiosa sterile che non incarna sino in fondo le conseguenze di quel “dimorare in”; è la forma cultuale di quanti ostentatamente dichiarano: “Signore Signore, abbiamo profetato e compiuto molti miracoli nel tuo nome” per ritrovarsi poi allontanati in quanto “operatori di iniquità” (Mt 7,21s.); od ancora quelli evocati nel severo ammonimento di Gesù: “non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno” (Mt 23,3). Nessuno è esente dalla possibile deriva del fariseismo ipocrita. Ed anche per il tralcio fruttuoso permane la necessità di una costante potatura. La Parola ci riporta all’essenziale, esige che sappiamo liberarci – di volta in volta – sia dalle nostre certezze come dalle nostre paure, ed ancor più dai nostalgici arroccamenti sulle glorie passate. Sperimenteremo abbondanze inattese se assumiamo – oggi – il coraggio di lasciarci sfrondare da tutto ciò che non ci fa essere pienamente noi stessi. Il fine ultimo è diventare discepoli. E discepoli non lo si è mai una volta per tutte, lo si diventa – appunto – giorno per giorno!

 

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