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Una nuova Chiesa, più domestica e vicina alla vita. Senza Chiesa e senza Dio/3

Una nuova Chiesa, più domestica e vicina alla vita. Senza Chiesa e senza Dio/3

[Daniele Rocchetti, delegato regionale alla vita cristiana] 

Intervista con Brunetto Salvarani, teologo. Terza parte
La pandemia, laboratorio per una Chiesa del futuro.
La crisi potrebbe diventare un’occasione propizia

La Chiesa a quale conversione è chiamata?

Mi servo, per cercare di rispondere, di un esempio, ritengo eclatante, che traggo da un bel libro curato dal vescovo di Pinerolo, Derio Olivero, Non è una parentesi. Durante la pandemia la Chiesa si è spostata nelle case, cosa che noi non avremmo mai fatto di nostra iniziativa. Non conta in quante, ma conta che sia avvenuto, e che in molte case si sia allestito, durante il triduo pasquale, un tavolo con la parola di Dio aperta, un lume acceso, un pane spezzato, un calice di vino, un mazzo di fiori. Conta che sia avvenuta una celebrazione domestica presieduta da una ministerialità familiare, laica, spesso femminile; che i riti abbiano ripreso posto nella vita e abbiano cominciato a sentirne il sapore.

Ecco quanto non si dovrebbe più fare: sequestrare nuovamente le celebrazioni e tornare a chiuderle nelle chiese, rendendole una volta ancora un’esclusiva clericale, a dispetto del linguaggio abituale della celebrazione comunitaria. Prendersi cura di quanto è appena sbocciato significherebbe incoraggiare piccoli riti personali e familiari, riti di fede alla misura del tempo, dello spazio e del luogo di una famiglia normale. Da questa ritualità familiare riattivata potrà forse un giorno nascere il coraggio di fare ciò che non avremmo mai fatto da soli: riaprire il dossier delle nostre intoccabili forme celebrative, affinché i riti tornino a ospitare la vita e in tal modo liberino la loro potenza generativa nel fornirle una forma nuova, redenta e salvata. Al riguardo, è significativa la testimonianza di don Ivo Seghedoni, presbitero di Modena e mio collega all’Istituto di scienze religiose dell’Emilia, ma anche parroco di una grande parrocchia cittadina. 

Don Ivo, ripensando al suo camminare pensoso nella chiesa vuota una domenica mattina, durante il lockdown nel 2020, annota: “Non si trattava di girare pensierosi dentro una chiesa vuota, quanto piuttosto di rendersi conto che la Chiesa era da un’altra parte. Stavamo cercando tra i morti. Ciò che era vivo non era lì: non lo poteva essere, perché lì la sua presenza era preclusa, ma c’era. Era altrove. Era dentro le case dove le famiglie vivevano la preghiera domestica. E lo facevano attivando tutta una serie di azioni pastorali che, in chiesa, non sarebbero state possibili. Lo facevano creando uno spazio adatto dentro l’ambiente feriale, prendendosi un tempo contrattato tra i vari membri di casa secondo un orario scelto con libertà e non imposto dal negozio parrocchiale… Offrendo ai giovani una testimonianza di una fede che non è fatta di osservanze stabilite, ma piuttosto di una scelta semplice, calda e bella, spoglia di rigidità e di abitudini…

Abbiamo assaporato i primi timidi segni della nascita di una Chiesa radunata nelle case e raccolta insieme dagli strumenti che ora abbiamo a disposizione, sentendo il sapore buono di un pane che non ha la ricchezza e la solennità di quello benedetto nelle nostre curatissime eucarestie domenicali, ma che ha la fragranza e la schiettezza di quello condiviso in famiglia. Diverso, ma anch’esso nutriente e sufficiente a continuare il cammino”.

Don Ivo concludeva offrendo un’interpretazione positiva di quell’affermazione che potrebbe spaventare più di qualcuno: la fine della civiltà parrocchiale. Una fine che non lascia il vuoto, perché, ai suoi occhi, è già in fioritura “l’aurora di una Chiesa che lascia lo spazio sacro”, “una Chiesa che non va in chiesa. O che non fa dell’andare in chiesa il suo distintivo. Il volto e la forma di una Chiesa che vive nelle case, di una Chiesa che si apre a una nuova missionarietà”.

Già il concilio, del resto, aveva reso evidente che la Chiesa del futuro non potrà essere semplicemente concepita come la restaurazione di un modello storicamente superato quale quello determinato dal concilio di Trento, ma dovrà fondarsi su una rigenerazione globale, capace di superare sia l’eurocentrismo che ha segnato gli ultimi secoli della sua storia, sia il tradizionale rigido steccato tra clero e laici, per coinvolgere l’intero popolo di Dio in un processo virtuoso di trasformazione creativa. Quanto lavoro… ma ne varrebbe la pena!

Come immagini la Chiesa del futuro?

Qualcosa ho già detto. Aggiungerei che, quando domandavano a Christian de Chergé, priore del monastero trappista di Tibhirine, se avesse senso mantenere lì una minuscola comunità di religiosi come la loro, dato che in Algeria non erano autorizzate le conversioni al cristianesimo, lui di solito rispondeva che la cosa più importante non era fare numero, ma essere segno.

Peraltro, è la stessa storia di chi ha speso la vita nel nome di Gesù a dimostrarci che il nuovo emerge ben distante dall’equilibrio, ai confini del caos, in frangenti inattesi di irruzione della creatività nel grigiore della quotidianità. Ecco perché, a conti fatti, e a dispetto dei numerosi e chiassosi profeti di sventura (compagni ideali di quelli deprecati da Giovanni XXIII mentre introduceva, sessant’anni fa, il Vaticano II con il discorso Gaudet Mater Ecclesia), questo cambiamento d’epoca non solo non dovrebbe mettere paura, ma se affrontato con il piglio giusto potrà fare del bene al vangelo, alle chiese e alla loro credibilità (ma anche ai cosiddetti non credenti, e alla società tutta).

Infatti, “se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). Quel che è certo è che il cristianesimo che abbiamo ereditato dal passato e in cui sono cresciute acriticamente molte generazioni – fra cui la mia, naturalmente – non funziona più: se intende risultare credibile ed essere praticato in un prossimo futuro, va ripensato da capo.

Anzi, forse ha ragione il domenicano Dominique Collin, per il quale il cristianesimo – a ben vedere – non esiste ancora… Guardare in faccia il nuovo è un’operazione complessa, e spesso dolorosa: in genere è più facile vedere ciò che conosciamo già, e non industriarsi a capire che il mondo che ci era familiare non è più quello in cui viviamo. Ma questo è quanto ci viene richiesto, niente di più e niente di meno, se vogliamo prendere sul serio la crisi.

Grazie a Paolo De Benedetti, anni fa, ho imparato che nell’ebraismo non tutte le discussioni talmudiche si concludono con una presa di posizione: in parecchi casi si chiudono con la parola tejku, acronimo della formula il tishbita Elia verrà e deciderà, che quindi significa sospeso. Infatti, non ci è dato, ora, di conoscere tutto. E anche le nostre chiese dovrebbero imparare a usare un po’ di più questa bella espressione…

Sì, a conti fatti questo potrebbe rivelarsi un kairòs, a dispetto di ogni apparenza, un tempo di straordinarie e sorprendenti opportunità, se ci crederemo e ci investiremo energia e passione. Se prevarrà la realtà. “La realtà è superiore all’idea” è uno dei principi che – com’ noto – guidano il pensiero di papa Francesco. Il quale ne parla, per la prima volta, nell’Evangelii gaudium, al numero 231, mentre affronta gli obiettivi, a lui particolarmente cari, del bene comune e della pace sociale, inserendolo fra i criteri per un discernimento di scelte capaci di favorire un’ordinata vita sociale ed ecclesiale: “La realtà semplicemente è, l’idea si elabora. Tra le due si deve instaurare un dialogo costante, evitando che l’idea finisca per separarsi dalla realtà”. L’invito, perciò, è a vigilare attentamente su quelle forme di idealismo che – pur talvolta generose e mosse da buone intenzioni, ma non per questo innocue – rischiano di mortificare il reale. 

In effetti, come si legge nella Mishnà, nel trattato Pirkè Avot, in un detto di rabbi Tarfòn: “La giornata è corta e il lavoro è tanto; gli operai sono pigri, il compenso è abbondante e il padrone di casa incalza. Ma non è tuo il compito di completare l’opera, né sei libero di esentartene” (2,18-19). Se c’è un tempo per ogni cosa, questo è il tempo per non esentarsi dal tentare l’opera e dal sentirsene partecipi, tenendo conto che l’attuale cambiamento d’epoca richiede in primo luogo di mutare sguardi, cuori e pensieri: perché la Chiesa del futuro dipenderà dalla Chiesa di oggi, che ascolta e risponde al mondo in cui vive. 

Terza parte – fine

 

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