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“Riportare i giovani a messa”

“Riportare i giovani a messa”

[Daniele Rocchetti, delegato regionale alla vita cristiana]

Intervista a don Armando Matteo su giovani che faticano a diventare adulti, su adulti che vogliono restare sempre giovani, sulla Chiesa e su tanto altro

Per chi si occupa di pastorale ma, soprattutto, per chi cerca di leggere con intelligenza le trasformazioni in atto nella società italiana e come queste incidono sulla vicenda cristiana, don Armando Matteo resta un autore prezioso.

Teologo e docente della Pontificia Università Urbaniana, da poco nominato da papa Francesco alla carica di segretario della Congregazione per la dottrina della Fede, don Armando, prete calabrese, con i suoi libri è spesso riuscito a mettere a fuoco in anticipo alcune coordinate della cultura contemporanea. I titoli dei suoi libri, spesso pamphlet di non molte pagine ma di grande spessore, mettono a nudo questioni cruciali della fede cristiana del nostro tempo:  “La prima generazione incredula”, “La fuga delle quarantenni”, “Il post moderno spiegato ai cattolici e ai loro parroci”, “La Chiesa che manca”, “Eclisse dell’adulto e trasmissione della fede alle nuove generazioni”.

Così è anche per questa sua ultima fatica: “Riportare i giovani a messa. La trasmissione della fede in una società senza adulti”, pubblicato da Ancora. Una riflessione lucida che mostra la distanza sempre più profonda tra la proposta cristiana e i giovani di oggi. Figli di una generazione incapace di mostrare la bellezza del Vangelo. E di una Chiesa timorosa di sperimentare percorsi e progetti capaci di incrociare le domande delle donne e degli uomini del nostro tempo.

Ancora una volta, caro don Armando, in un tuo libro parli di giovani ma ti riferisci agli adulti. Adulti che mancano o che sono poco significativi dentro la società..

È proprio così. Da parte mia ritengo, infatti, che la questione degli adulti sia la più rilevante nel nostro contesto attuale. Le radicali e rapide trasformazioni che le generazioni postbelliche hanno potuto sperimentare nella loro condizione elementare di vita (si pensi solo al tema della longevità e più in generale all’avvento dell’epoca del benessere) hanno provocato un forte impatto sul senso generale dell’esistenza umana. L’adulto occidentale medio immagina e progetta oggi la sua esistenza nell’ambito delle categorie della potenza, della libertà e del godimento. È fortemente concentrato su sé stesso e ha deciso che il senso della propria presenza al mondo è quello di godersi questo mondo. Per quest’adulto la felicità è vivere la vita nella sua forma giovane. Ciò comporta, tuttavia, che di “adulto” i nostri adulti non abbiano più quasi nulla. Dove per essere adulto intendo propriamente l’assunzione in modo prioritario di cose come responsabilità, generatività, cura, educazione, trasmissione di valori, presa in carico del destino dei cuccioli che ora vengono al mondo. In noi adulti, si dà vita ad una forma di adultità semplicemente intransitiva, che è la negazione stessa dell’essere adulto. Se si capisce questo, si è in grado di capire la fatica di crescere e di credere dei nostri giovani.

Lo stesso si può dire anche per la Chiesa. Latitano adulti nella fede. Cosa si può e si deve fare? Quali priorità pastorali assumere?

La priorità è dare vita ad un radicale “cambiamento di mentalità pastorale” (l’espressione è di papa Francesco). Dobbiamo onestamente prendere atto che il nostro modo di presentare come amabile e desiderabile il Vangelo di Gesù ed il Gesù del Vangelo non funziona più. E non funziona più perché è parametrato su una condizione elementare di adultità e su un immaginario di adultità che non c’è più. Noi parliamo agli uomini e alle donne di oggi, ma in realtà abbiamo in testa ancora i genitori e i nonni di questi uomini e di queste donne. Ed è così che presentiamo il cristianesimo come forma di consolazione, di contenimento dell’angoscia di essere in un mondo eccessivamente sfidante ed altro ancora. È tempo di “inventare” una pastorale degli adulti all’altezza del trionfo di Peter Pan nel cuore degli adulti e delle adulte di oggi. Ed è cosa urgentissima. Peter Pan non è così innocente come potrebbe sembrare.

Nel libro scrivi che «non sarà possibile ripensare le istruzioni per credere, per innamorarsi di Gesù, per diventare cristiani, senza riabilitare e rivitalizzare le istruzioni per crescere, per diventare grandi, per giungere all’altezza di una adultità compiuta».

Come dicevo prima, i nostri giovani non solo faticano a credere, più radicalmente – in questa strada società che siamo diventati con tantissimi adulti ma senza nessun adulto – faticano come matti a crescere. L’immaginario condiviso che pure nutre la ricerca di istruzioni di senso dei nostri ragazzi è tutto instradato verso un’esaltazione parossistica di giovinezza, un rifiuto deciso dell’adultità e una sorta di “denaturalizzazione” dei processi di invecchiamento e di morte. Chi prova sincero affetto per le nuove generazioni è chiamato allora ad aiutarli a liberarsi da un tale tossico e velenoso modo di presentare l’esistenza umana e il suo destino. Serve ristabilire la centralità della condizione adulta, nella quale brilla il carattere proprio della specie che è quello della cura dell’altro da sé, la funzionalità del periodo della giovinezza, come cammino per individuare le forme in cui vivere al meglio quella cura, la naturalità del destino di invecchiamento e di congedo dall’esistenza che tocca a ogni umano. Non è cosa facile, ovviamente. Il sistema economico e massmediale fa un sacco di soldi – ma proprio un sacco di soldi – con questa idea balorda del “poter restare sempre giovani”; del “respingere i segni del tempo che scorre” ed infine con questa costante rimozione del carattere mortale della specie. Come non restare attoniti dal fatto che in Italia ormai non muore più nessuno? La gente infatti si spegne, scompare, viene a mancare, smette di soffrire, va in cielo, nella casa del Padre…

Jean Guitton, in tempi non sospetti, parlava di “frattura della memoria”. Ora però la situazione mi pare più allarmante..

Decisamente. Perché qui a “rompere” con la catena delle generazioni e dunque della trasmissione di memora siamo noi adulti. Noi non vogliamo essere testimoni di nulla se non della nostra folle e disperata corsa ad una vita vissuta in un impossibile forma giovane. Si pensi a come parliamo, a come ci vestiamo, a come gestiamo il nostro tempo libero, a come guidiamo, alla mania per le diete e per la palestra, ai soldi buttati in cosmetici (milioni di euro per miscugli contro la caduta dei capelli, quando è a tutti noto che una sola cosa è in grado di arrestare la caduta dei capelli: il pavimento!). Cosa vedono dunque i nostri figli e le nostre figlie, quando ci vedono? Null’altro che bruttissime fotocopie di loro stessi. Siamo semplicemente un falso!

Per molto tempo abbiamo vissuto un’illusione ottica che ci ha fatto scambiare i giovani che partecipavano alle GMG per i giovani tout court..

Il mio giudizio sulle GMG è articolato. È stata un’intuizione felice: attirare l’attenzione sui giovani, quando nessuno ne parlava. Era un atto sociale importante. Profetico. Ed eravamo ancora nel 1984. Ed è così che le GMG hanno fatto davvero storia. Purtroppo, non hanno fatto scuola. Questo è il punto. La pastorale parrocchiale rivolta ai giovani non è cambiata in nulla. Si rilegga cosa dice papa Francesco al numero 105 di Evangeli gaudium. Oggi il rischio che tu paventi è altissimo. Facciamo pertanto risuonare di nuovo in noi le parole d’ordine del Sinodo sui giovani del 2018: la comunità dei credenti è profondamente interessata al destino buono di tutti i giovani, nessuno escluso!

La parrocchia sembra avere il fiato corto. E dunque si dà spazio per immaginare luoghi dove ritrovare il senso della vicenda cristiana?

Il primo ed essenziale luogo di quel cambiamento di mentalità pastorale di cui dicevo prima è la parrocchia. Che ha ancora tantissime possibilità. È come i gatti che hanno sette vite. La parrocchia dunque serve ancora, ma serve una parrocchia diversa. Nei miei recenti libretti, ho provato ad indicare ben 30 cose che le parrocchie potrebbero mettere subito in atto per recuperare forza di attrazione nei confronti degli adulti e dei giovani. Detto questo, spazio grandissimo alla creatività. Ovunque e sempre. Cosa non dire per esempio del vostro Molte fedi sotto lo stesso cielo, del Festival biblico, delle iniziative dei movimenti e delle associazioni cattoliche, delle piccole e grandi nuove comunità, dell’apertura ai tanti dei tesori della tradizione monastica? Dio ci dia la forza di non aver mai paura di iniziare qualcosa di nuovo.

Quali sono i segni di speranza che ti pare di intravedere?

Mi ha colpito molto – nelle sintesi delle Conferenze episcopali per il Sinodo sulla Sinodalità che ho potuto leggere – l’insistenza sui giovani. È segno che ci mancano. E, questo, è un grande segno di speranza. Quando qualcuno ci manca, abbiamo lo spazio per un desiderio di cambiamento e di novità. Abbiamo lo spazio per superare quella cattiva paura che ci porta a chiuderci nel “si è sempre fatto così”. Coraggio, allora, amici. Abbiamo e possiamo fare tanta strada incontro ai giovani che ci mancano.

 

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