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Europa non ti smarrire!

Europa non ti smarrire!

“Dov’è il tuo vigore? Dov’è quella tensione ideale che ha reso grande la tua storia?” (Papa Francesco)

 

Da un po’ di tempo molti articoli e servizi informativi sull’Unione Europea parlano delle difficoltà che questa sta vivendo, cavalcano critiche ed  accuse identificandola come la “madre” di tutte le difficoltà  economiche e sociali presenti, seppur in modo differenziato, nei Paesi che ne fanno parte.  Probabilmente si tratta anche di una reazione alla convinzione, diffusa in modo affrettato e superficiale nei decenni precedenti,  che l’appartenenza all’Unione Europea possa costituire uno “scudo” di protezione, in grado di tenere i propri cittadini  al riparo da possibili crisi.

La situazione attuale è realmente preoccupante, non di facile soluzione, ed è il risultato di una serie di fattori tra i quali l’incompiutezza dell’UE e un affievolimento del “comune sentire” degli Stati membri. Pesa innanzitutto il fatto che il processo di costituzione dell’Unione Europea sia incompiuto e pertanto gli Stati membri non beneficiano degli strumenti dei quali si dovevano dotare, già da tempo, in termini di maggior partecipazione democratica, di trasferimento di poteri e di  sovranità da se stessi all’UE. Inoltre non è secondario un altro dato: essendo mutate le condizioni sociali, culturali ed economiche delle nazioni che hanno dato l’avvio  e che compongono l’Unione Europea, si è assistito ad uno affievolirsi del desiderio di cooperazione tra di loro.

Il progetto di un’Europa unita prese avvio dopo due tragiche guerre, esplose nel giro di trent’anni e definite mondiali, sebbene avessero il loro epicentro nel cuore dell’Europa. Furono due conflitti epocali, durati complessivamente una decina d’anni, che segnarono nel profondo i popoli del continente. Non a caso il primo accordo concreto, con il quale veniva suggellato l’avvio del percorso di Unione  Europea, quello sul carbone e sull’acciaio (CECA), assunse un’importanza commerciale e fortemente simbolica. Fu infatti un accordo pensato anche come baluardo per sminare definitivamente il terreno da possibili nuovi conflitti, togliendo di mezzo uno dei motivi che aveva causato, per secoli, delle guerre nel cuore dell’Europa, tra i francesi e i popoli germanici:  il possesso di  un lembo di terra, ricco di carbone.

“Basta guerre!”  Fu un imperativo talmente forte e impresso sulla pelle e negli animi di milioni e milioni di persone che  i Padri costituenti della nascente Repubblica Italiana lo scrissero perfino nella Costituzione all’articolo 11.

Con il passare degli anni  il consolidarsi di un crescente benessere largamente diffuso, accompagnato da un più alto e generale livello di scolarizzazione e dall’abbattimento di molte frontiere, ha generato nei cittadini una specie di appagamento per i risultati raggiunti.

Un rilancio delle motivazioni originarie si ebbe però nel 1979 con le prime elezioni europee. Nei nove Stati membri della Comunità europea, tra il 7 e il 10 giugno, i cittadini si sentirono più “europei”  recandosi alle urne per eleggere  i 410 membri dell’Europarlamento. Quell’evento rappresentò un’onda positiva che trovò, 10 anni dopo, ulteriore vigore con l’abbattimento del muro di Berlino. “Mai più muri!” Fu un grido liberatorio. In quel periodo molti pensavano che si potesse dare avvio, addirittura a livello mondiale e non solo europeo, ad una “Nuova Era” che finalmente bandisse le guerre e  le logiche che per decenni erano state alimentate dalla “guerra fredda”, dal dover vivere all’interno di uno dei  due “mondi” contrapposti … con tutte le limitazioni che quella situazione comportava. Quello fu il contesto culturale ed emotivo nel quale venne da molti sollecitato l’allargamento dell’Unione Europea con il rapido ingresso di nazioni dell’Europa dell’Est  e fu interpretato anche  come un primo  passo formidabile verso la ricomposizione della “Europa che deve respirare a due polmoni”,  immagine cara a papa Giovanni Paolo II. La stessa esperienza positiva dell’unificazione della Germania costituì l’esempio trainante di un processo di unificazione che sembrava essere possibile e in grado di disegnare nuove convivenze in Europa.

Ma le cose non andarono così. Troppe ambiguità, da ambo le parti, accompagnarono le adesioni di quegli Stati che si aggiunsero all’UE e le motivazioni furono bel lontane dallo spirito dei Padri fondatori. Infatti per i paesi dell’Unione Europa era importante stabilizzare lo smantellamento dell’URSS, isolare la Russia, aprire nuovi mercati, però imponendo ai nuovi arrivati  vincoli, parametri e rigide direttive. Dal canto loro, le nazioni dell’Est che aderivano all’UE ritenevano in quel modo di poter finalmente sperimentare una nuova stagione di sovranità nazionale e democratica, a lungo agognata. Tutti sottovalutammo il fatto che forse per loro era più forte il desiderio di fuggire dal passato per rigenerare se stessi, la propria identità, autonomia e sovranità, rispetto a quello di  ricongiungersi immediatamente ad altre nazioni, per costruire un futuro comune.

L’irrompere della crisi finanziaria ed economica nel 2008 ridimensionò bruscamente  gli iniziali entusiasmi ed affievolì le speranze. Il perdurare e l’espandersi della crisi, accompagnata dalle inappellabili  imposizioni rigoriste della cosiddetta “Troika”  (Unione europea, Fondo monetario internazionale e Banca centrale europea)  in materia di lavoro, pensioni, salute e assistenza sociale alimentò progressivamente nelle popolazioni dei Paesi colpiti da tali interventi le ostilità  verso l’UE, ritenuta  l’origine dei sacrifici imposti e la responsabile del proprio impoverimento.

Il più recente fenomeno dei flussi migratori verso l’Europa, dai Paesi dove ancora persistono e vengono alimentate guerre, distruzioni e povertà, ha contribuito ulteriormente ad alzare in modo preoccupante anche la disaffezione verso il processo di unificazione europea, sotto i colpi  di un diffuso smarrimento generato dalla sensazione di perdere oltre al benessere, anche la propria identità, fatta di storie, valori, relazioni. Certamente i flussi migratori, presenti in tante parti del mondo e che dureranno per lungo tempo, rappresentano un fenomeno molto complesso che va studiato, governato ed affrontato partendo innanzitutto da seri e non strumentali o occasionali interventi sulle cause che li hanno generati  – prima di tutto le guerre e le carestie – ed individuando, in tempi accettabili, delle modalità di accoglienza da attuare con soluzioni strutturali e non solo di emergenza.  A tale proposito, in questi giorni, il cardinal Scola (arcivescovo di Milano) ha suggerito di attivare una sorta di Piano Marshall.

La pressione di migliaia di profughi, che cercano disperatamente un’alternativa di vita, viene strumentalizzata ad arte, per alimentare nelle popolazioni di molti Stati europei  il risveglio  di sentimenti ed atteggiamenti xenofobi che si materializzano anche in alcuni partiti politici e in esasperati nazionalismi o localismi.  I muri, prima di essere eretti lungo i confini contro gli immigrati, vengono tracciati dentro ai popoli e dentro alle coscienze… e non solo a motivo dell’immigrazione.

Tali atteggiamenti infatti, a ben guardare, avevano già espresso tutto il loro potenziale negativo oltre vent’anni fa, durante i conflitti prima in Bosnia e poi in Kosovo,  proprio nel “cuore” dell’Europa, all’interno di una “guerra europea” che  noi facevamo fatica a riconoscere come tale,  ritenendola “periferica” e dimenticando anche che la scintilla della prima guerra mondiale scoppiò proprio lì, tra quelle popolazioni. I conflitti nei Balcani, in seguito alla frantumazione  della ex Jugoslavia, ci hanno già mostrato le conseguenze del risorgere delle identità nazionalistiche, idolatrate in modo così fanatico da giustificare le logiche e le pratiche del genocidio e della pulizia etnica su intere aree. Corriamo un grosso guaio se quelle terribili esperienze non ci insegnano nulla e  non ci aprono gli occhi sulla necessità di contrastare gli impulsi e i movimenti che, con modalità differenziate, stanno emergendo  di nuovo anche nelle nazioni europee che se ne ritenevano immuni: Olanda, Austria, Francia, Germania, Belgio e anche Italia.

Papa Francesco il 6 maggio, nel discorso pronunciato in occasione del ricevimento del premio Carlo Magno, ha cercato di scuotere noi europei invitandoci a riflettere con  la seguente domanda: “Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà?”.  Già lo fece un anno prima quando, in visita al Consiglio d’Europa, così si espresse: “Europa dov’è il tuo vigore? Dov’è quella tensione ideale che ha reso grande la tua storia?” In quell’occasione invitò l’Europa a valorizzare la sua multipolarità di popoli che “nascono, crescono e si proiettano verso il futuro”, una multipolarità dell’Europa immaginata come un poliedro, dove l’unità armonica del tutto conserva la particolarità  di ciascuna delle parti.

Occorre pertanto recuperare una visione multipolare di popoli che permetta di guardare all’Europa e al mondo con uno sguardo differente. Questo forse contribuirà anche a rendere di nuovo credibile la classe politica che ci governa, a patto che trovi il coraggio di rilanciare il processo di Unione Europea adottando nuove strategie e stipulando nuovi trattati tra gli Stati che la compongono.

Compito importante per i movimenti e le associazioni è quello di pressare i propri governanti, i deputati eletti al Parlamento Europeo, le istituzioni dell’UE affinché guidino le nazioni e il grande popolo europeo fuori dallo stallo e dalle miopie oggi persistenti.  Spetta innanzitutto alla classe politica e dirigente credere nel sogno dei Padri fondatori, concretizzarlo attuando la messa in comune non solo della moneta, ma anche  della  politica estera, della creazione di un esercito  unico, di una difesa comune (con la messa in discussione della Nato), di una giustizia comune, mettendo il Parlamento europeo e gli organi di governo dell’Unione Europea nella condizione di poter “governare”, portando a compimento  una parziale ma sostanziale cessione di sovranità da parte degli Stati membri.

È questo il gesto politicamente più forte, ma indispensabile, che viene chiesto ai governanti e a noi cittadini ed è l’unico che  ci mette nella condizione di essere, a pieno titolo, attori all’interno di una nuova cittadinanza. Un gesto possibile se  accompagnato e sostenuto  da una diffusa cultura civica che ci aiuti ad acquisire la consapevolezza di essere “cittadini europei”, con doveri e diritti da cittadini europei.

Ruffino Selmi

(dal bimestrale Il Dialogo delle ACLI Svizzera)

 

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